Lo Pelicano est simbolo di Jesus, sì che ei non hebbe a soffrir di vere sofferenze, che come lo Pellicano becca suo istesso petto per sfamar li figli. Sì che quando Angeli, et Lucifero con loro, pregavan a Iddio chiedevan lui lo pane soprasostanziale, che est sì unico mezzo grazie cui li homini ricevon da Asuramasda la Luce.
Così est colui che comprende con digiuno et altri sacrifici lo valore de Pelicano ha sì diritto a Regno de Luce, che egli fin ne la oscurità ha ben compreso lo mistero de natali di creato.
Così hebbe ad essere che Adamas sette volte domandò a lo padre soccorso, che Dio niuno può aiutare che non sia conoscitore di suo segreto; est chesto sacrificio ultimo.

Osvaldo, come hebbi a dire, portò me ne le terre di Carcassona, in viaggio sì veloce e di premura, che io avea scorta di quattro homini di Osvaldo, et ognuna cosa a me era data.
Osvaldo ben comprese lo valore mio, et egli era di grandissimo rispetto, sì che pur avendo la agognata persona mia in sua dimora, ei decise di far tornare me a la patria, che prima preoccupatione era ch’io fossi ne lo controllo de persone fidate. Come dissi, terre di Lombardia era allora soggette a controllo da judici di Chiesa, così Osvaldo diede me ognuno lusso ch’ei potea mais con umiltà, volendo ei attrar poco la curiosità de le genti.
Lo viaggio fu per me moto consolatorio, tempo in cui chieder penitenza a Asuramasda, tempo di combatter le visioni mie, fantasmi che ne le notti & ne li giorni seguitavan a prender forma di svariata persona; vidi io lo viso di Jacopo et ei avea occhio di faina, et Fucito co mani di negro che contava li dinari di Fernando, et Lisa che teneva colloquio co li animali suo cibo.
Erano chelli li tempi di prime privazioni a mio potere, ch’io non sapea distinguer notte da jorno, allor che s’io sognava lo homo che faceva me da guardia in veste di uccisore, io non riusciva a guardar lui per alcuni giorni tanta era mia convinzione ch’egli fosse in procinto a uccider me.
Era io sì felice che niuno venisse a domandar de visioni o de questioni de religioni, che tutto era covo di nodi, con Arimanno che avea le movenze di Cristo, et Jehova Diavolo diveniva Asuramasda.
Così, ne l’anno 1200, fine de la era de li apostoli latini et inizio di apostoli Puri, io avea fatto ritorno a Carcassona, et portato a la persona di Donna Adelaide, consorella, ospitato ne le stanze di suo palagio.
Era chesta donna sì casta, tale che avea rispetto de le genti tutte, che li Puri ammiravan lo suo sentore a le cose divine et li ecclesiastici latini ammiravan lo distacco suo da cose terrene. Mais tempo era scorso, et tali e tante cose mutate ch’io ora poco avea a che spartire con Chiesa di Puri. Era sì accaduto ne le terre di Filippo ciò che hebbe ad accadere ne la Lombardia; per le strade ci si incontrava non in rarità con sacerdoti domandanti de la fede, et terrore spersosi che eretici veniva bruciati come locuste. Chesto hebbe a scatenare lo pathos de alti capi di Chiesa, et timore ne le genti semplici Pure; così accadde che lo popolo Puro rinunziava a la via di Luce per timor di rogo, et Perfetti con loro affini divenivan casa di genti coraggiose o folli, et ognuno vescovo appellatasi a li doveri maggiori. Chiesa Latina & Chiesa Pura chiedevan entrambe prove di fede sì maggiori, quasi tutto divenisse giostra et non religione.
«Lo Puro ha in destino proprio avvenire da Perfetto, che in altro caso Puro non est. Niuna cosa di materia per noi, nessun cibo concepito da parto per le bocche noster, et parto niuno. Così niuno sollazzo, che la carne deve si deperire et dimandare a sé istessa lo destino de cadaveri. Lo Cielo ha a mandarci un segno: Re Filippo abbandona sua consorte per combattere Papa tiranno, et così sarà ad essere per noi tutti.»
Con cheste parole Adelaide accoglieva me a Carcassona, ne la voce la flemma de convintione salda. Era ella, a li tempi di mia infanzia, consorella astante a li concili ne lo palazzo suo, quand’ancora lo marito suo era vivo. Quando ei hebbe a morire ella tutto di lui ereditò, così anche la padronanza de Concili Puri, et ricordavo di ella la persona; mise me in viaggio pe Parigi, indove, mentre io veniva a Carcassona, padre Julius era stato informato di mio ritrovamento, et avea egli informato lo padre mio.
Adelaide domandò me lo nome di tal persona, et io risposi che non sapeva, mais ch’era certo ch’era mio padre, cosa che mai prima di allora avea detto a persone. In occasione di tal viaggio hebbi a riveder la persona di Niceta, altro grandissimo simbolo che aperse lo core mio et condannò me a disperder la patria mia, che da jorni con Fernando non v’era niuno luogo ch’io sentissi di protezione.
Padre Niceta era ormai a la soglia de la Morte, ma occhi sua ancor più vivi, rimirati ne le rare volte in cui non li tenea serrati. Era ei di costante silenzio, et figura sua immobile zittiva le genti, sì che niuno hebbe coraggio di rivolgersi me allor che venni sotto sua protezione.

Mentre io anelo a mio sacrificio per Donna Dorotea, temo sì che spire di inferni stian travolgendo Adil, ch’ei pare folle.
Ne lo jorno passato, ei ha parlato come fa a li spettacoli, movendosi pe la stanza et saltando come grillo, la voce alta & ilare:
«Comprendi, adunque? Parli me di tue visioni, et tali momenti di estasi in cui niuna cosa ha larghezza o misura. Così semper est. Nostra finzione, est chesta cosa vera, che le cose non hanno vera verità. Guarda me, ch’io parla di mille et mille cose et niuna di cheste est vera, mais ognuna risveglia ispirito de persone, sì che ho avuto adoratori quasi fossi io stesso Dio. Che la importantia sta in parola, et immagine, et in suono, che nulla est di volere se non si vicina ad altra cosa. Cosa sì certa, quando tu abbisogni di cibo io ti narro sì di avaro che cumula danari, così che tue interiora si empiono. Danaro est cosa di Dio, che nulla ha di valore per homo che non simbolo.»
Mais chesti inferni son vera disgratia?
Guardava io Adil, et di suo pathos veniva travolta la mia persona, sì che danzanti siam stati in chesta cella. Non era musica, neppur cibo, neppur bevanda, mais persona mia tutta intrisa di tal piaceri, quasi io avessi rubato Luce da Mani et donata a mia persona & Adil.
Et ei ripeteva:
«Chesto splendidore est vita! Non Luce unica & sola! Che homo est di contentezza allora che empie sue lacune, mais chi tutto empie di malinconia more, che li studiosi portan unico vestito & unica verità, mais empi tal di conoscentia che s’inventan malattie di animo da risolvere. Et io son mago, sì, che so empir mancanze di persone mais in fasulla maniera, sì che chesti semper abbiano da empire!»
Est Inganno, immensissimo Inganno che Verità est una. Che roccia non est cosa, neppur cibo, neppur foco, neppur roccia. Che roccia est Dio, et Dio unico.
Mais anco Inganno est unica cosa.

Castello di Queribus era opera omnia di Puri dotati a Perfetti. In tal luogo Adelaide avea dimandato ch’io fossi condotto, et in seguito a Parigi.
In ampia cappella io stavo, ne lo centro, fumigationi me vicine et centinaia di homini & donne in miserevole veste Pura torno a me.
Io ne la mia visione osservava siffatta cappella da li cieli, con Mani su mia destra et Satana su mia sinistra, ch’era festa ne cieli; Potentati & Domini danzavan, chiamando me a tal ricorrenza, et dicendo:
«Ignori li homini di giù, che non comprendon le virtù nostre, et male vedono, ci figuran homini come loro, mais homo tu non sei. Abbandona dunque la visione loro.»
Guardava io giù, co le centinaia di persone salmodianti, in stato di estati capivo sì che ero vicino a morte, che mente mia tanto era vasta che li homini non haverebbero compreso, che in mie convulsioni & profezie potevan trapelare immani verità, sì che fratelli Puri haverebbero messo a fuoco me come latini facevan di loro.
Così io li vedevo, ridicoli & pericolosi, che troppo ignoranti non potevan comprendere la vastità di Dio e de gesti miei, così m’haverebbero condannato.
Angeli diceva:
«Son condannati, come li diavoli condannati tortureranno li loro simili.»
Così persona mia tremava, scongiurava che lo corpo mio su chello altare non proferisse parole non pronunziabili. Mais accadde, et niuna persona parve capire, che forse per tutti loro gesti miei non avea significanza, che io era gran danzatore tra loro. Mio compito era aver visioni così come loro compito era osservare, poca importantia avea per loro mente stretta qual cosa la persona mia vedeva che una sola cosa est vedibile, et tale cosa era Dio.

Lavoro mio est lavoro di matematico, studioso che raccoglie tomi di studiosi arabi et compara, guarda là dove li numeri son uguali, là dove li numeri son differenti, et di mille tomi uno sol ne divien, in sperantia che chesto sia più vicino a verità di mille uno accanto a l’altro. Così est vita mia, ricca di tomi non uguali.
In uno di detti tomi la persona di Niceta est folle, che la notte divien bestia et ringhia et sbava, corre pe le colline; in altro tomo est scritto che est Niceta lo padre mio; in altro ancora io hebbi a conoscere Dorotea a l’età di tre anni; in altro ancora Fucito causò l’odio mio et Salvatore mio amore.
Anche questo avean detto di me, “ei vedrà ne lo tempo, fin a dove tempo non esisteva”. Perché tempo est finzione, mais or che conduco humana vita tempo est matrice.
La prosa par fermare chesto tempo, quasi lo inchiostro fosse cosa divina. Tempo immobile, et ognuna cosa vien vista, che l’homo deve sì fermar lo presente per vivere lo passato.

Tornai a Parigi, patria mai consumata.
Non ricordo una sol parola di Niceta in tutte le settimane cui mi fece da tutore. Era egli, io credo, già in mondo di Luccicanza, libero da ognuno dovere, eppur capace di mover piede su mondo di materia. Hebbi a pensare che lui fosse Asuramasda in terra, che con tal corpo con me fingeva,
Mi lasciò senza saluto, et mai lo rividi. Credo sia in Asuramasda, et chiedo me se riuscirò a far tanto da rivederlo.
A Parigi era Julius, che accolse me con timore. Pe l’affetto che mi avea serbato mi abbracciò et mi baciò, mais parea ch’egli si trovasse innanzi a Judice Supremo. Abbracciati, ei mostrò me lo rammarico suo per mie sfortune, mais nulla chiese me di narrare, se non di mia salute.
Hebbe a mostrarmi le nuove costruzioni de l’Università, presentò me a li magisteri come “nobile Johann di Germania”, interessato a li studi & a le arti, di trivio & quadrivio.
Conobbi adunque Niccolò di Dresda, magister di cose di natura & matematica, homo sì affine a lo sapere de li antichi, tanto che ne la sua conoscentia talune volte hebbi a sentirlo mentre mormorava lo numero zero con modo sanguigno. Avea alta statura & radi capelli chiari, di età jovine, dieci anni più de miei attuali, le mani di corteccia semper a far movenze mentre avea elucubrazioni, li occhi incavati & bocca dritta di homo che abusa di sua mente, tanto perso ne li pensieri de la logica d’aver perso capacità di insegnar sue massime conclusioni.
Era homo laico, sì che io a tratti temeva sua persona, che semper avea avuto come buoni tutori homini di Chiesa, Mais ei si mostrò homo di fiducia, seppur sì distante da la persona mia et non costante ne li doveri suoi.
Niccolò haverebbe con me intrapreso viaggio per la Germania, et con noi famiglia di Amiens, la cui figlia andava a recar visita a Signore Guglielmo di Kassel.
Chesta figlia era Dorotea.
Di lei hebbi a conoscer come prima cosa sua voce. Era io ne lo orto co Niccolò, che in compagnia de monaci chiedeva me de le proprietà de pianta di basilico, che Jacopo già m’avea insegnato rudimenti di botanica & medicina, quando hebbi a sentire soave voce di fanciulla che discorreva con araldo oltre le mura di detto orto.
Est voce sua cosa divina, che come Asuramasda est unica nota, et svolgevasi in tal discorso con fermezza & candore di femmina Perfetta. Mancante io di giudizio, arrampicatomi su lo muro guardai timoroso Dorotea, co Niccolò esterrefatto che non sapea che mi stesse accadendo.
Est Dorotea co capelli color di rame, justa mistura tra oro de cieli & sangue de homini; li occhi di perla, co perle di color di lago, et bocca dolce & umile, collo sottile et tutto essere suo est umiltà. Ha mani che si movon come piume mais han forza d’attrarre ogni vento, et occhio decoroso & illuminato, che in ella Luce est Pura come ne li Domini,
Mais Niccolò subito mi avvicinò et, tiratomi per la tunica, chiese me qual follia m’accadeva. Et disse che lo studio est sacro, et donna & studio non cose connubiabili, et altre cose che soleva dire a li studenti suoi.
Mais mia non era follia.
Era l’anima mia a tempi libera come anima di bestia, et prigioniera de sue voglie, sì che io, persa fiducia ne lo rigore de le cose, guardava con occhio attento a cosa di mio interesse, queste varissime che io mi sentiva in nuovo mondo, indove niun homo meritava mia persona mais qualunque homo meritava mia curiosità.
Dorotea di chesta mia immane brama di mondo fu matrice, ch’ella era connubio perfetto; neppur homo di Chiesa neppur homo di Impero san capire, che la sua est bellezza de fiore in deserto, de candela sotto a lo Sole, di cosa straniera a ognuna cosa.
Vidi Dorotea, et vidi mille piccole cose di creato che mente Pura non sa vedere. Così accadeva ch’io smetteva d’ascoltar Niccolò allor che un carro passava, che io figurava di tutte le cose di detto carro, di tutti oggetti ch’esso conteneva; oppur potea capitare ch’io a la hora dei pasti avessi visioni vedendo le nubi oscurar lo sole, et Niccolò dovea tacer sue parole per soccorrer lo corpo mio caduto a terra.
Con Dorotea per la Germania indi partimmo.
Magister Niccolò era sì oscuro a li fatti di vita mia, ch’ei conosceva sì lo ordine Puro mais ei non era fratello. Credo sì che lui fosse homo di poca fede in Dio, che pe ogni cosa di creato andava a cercare spiegatione di logica, volendo sì saper dare ampia spiegatione di moti & sentimenti di homini.
Ei avea esser ch’io era persona sì importante pe Puri, mais niuno avea lui detto di qual importantia, ch’ei sapeva sì comprender visioni mie et havea credenza ch’io fossi afflitto da strana malattia dovuta a digiuno.
Eppur ne lo core mio Niccolò era homo di gran fede per cose di creato, che da primo jorno ei fu affetto da benevolenza pe persona mia, non come persona di Jacopo che volea constatar mio valore, et da primo jorno Niccolò hebbe a prendermi come allievo fidato, che cose tutte di matematica ei spiegava me co patientia infinita, ch’io mai avea avuto magister in cose di mente et non di fede.

Ricordo io ancora importantia de numero arabo nullo, est Zero. Chesto est sapere sì Puro, che li padri nostri da l’Oriente venivano.
Così io ho modo di spiegare come Jehova est Uno, et Lucifero Due, et Homo tre, et Asuramasda est Zero ne le sacre scritture. Mais per occhio Puro Asuramasda est Zero et Arimanno Uno, che co lo Zero ha a manifestarsi.
Eran chesti, ne lo tempo passato, miei gran diletti, ch’io amava usar matematica di Niccolò pe affari miei Puri; ne lo tempo presente chesto sollazzo est futilità, che le cose non visibili son me lontane et sole cose che hanno in me pathos son cose de homini.
Ha Adil suo capo messo su ginocchi miei, et qui preso sonno. Ne le ultime hore de jorno ei ha sì perso senno, che persona sua ha abitudine a libertà di luoghi, et mura di casa est per Adil simili a mura di prigionia.
Haverebbe egli voluto tentar la pazzia, che se non avesse avuto preoccupatione per persona mia, haverebbe sì preso moto per piani cosparsi d’acque.
Mais piogge imperano, sì ch’io temo altri giorni rimarremo qui, et egli a codesta idea invoca li Dei suoi che habbian gratia per vita sua.
Così che per immobilità de membra sue, sua mente ha ad avere gran dolore, et privo di forza & con flebile sperantia su miei ginocchi ha salutato la veglia.
Adil, come hebbe a essere pe Dorotea, et in minor misura pe Lisa, et per in malo modo & conseguenza per Fernando, ha con persona mia avuto effetto di mesi di studi. Et ei non ha gratia divina di Dorotea o malignità di Demonio di Fernando, est Adil homo mais può con tal semplicezza aver vicino lo cor mio come fa la preghiera & lo digiuno.
Semplice homo che ha potere di attrazione co Vero Homo.
Così era per Cristo? Che da le strade accolse homini & donne de volgo, mancanti di divina conoscentia, et ei amò costoro come fossero fratelli suoi di sangue.

Lo viaggio per la Germania, io & Niccolò diretti a le terre di Hannover, et Dorotea co suo seguito a le terre di Kassel, hebbe ad essere ne li ricordi miei tempo di jorni vivi come vita istessa, quasi che Potentati fossero venuti su terra di materia a dar Luce a cose ch’io vedea.
Ne lo carro noster Niccolò portava diverse qualità di piante & pietre, et dimandava da me nozioni su tal qualità, poi ei diceva me de lo effetto di tal pietra indove veniva bruciata o mescolata con altra tal pietra. Poi domandava me di dire lui de le leggi di diritto canonico et con voce sua di magister diceva me idee di genti laiche, sì ch’io potessi ben comprendere idea di mondo intero.
Con istesse pietre insegnava me lo studio di matematica, di calcoli che buon signore, ch’io chesto pe persona sua sarei divenuto, haverebbe dovuto aver conoscentia, et diceva me de importantia de calcolo de terre & bestiame per terre.
Ne lo viaggio lo carro nostro faceva sì tappa a le locande, dove servitù di Dorotea comperava rifocillamenti et noi tutti avevamo pasto.
Capitava così ch’io seduto a la tavola guardava con curiosità & ammiratione la persona di Dorotea, jovine quanto me, in modo tale che Niccolò rimproverava me, che homo di tal carica quale io sarei divenuto, ch’ei ancor ignorava fato mio di Messiah, non dovea usar modi di volgo, et dicea me de pericoli di donne et altre cose su vita di mondo, ch’ei diceva che in mondo nostro difficile homo dovea aver astutia & gran sapere di cose.
Dorotea hebbe semper ad essere perfetta, che li modi suoi havean decoro di fede & semplicezza di donna.
Dovea ella prender marito lo Signore Vescovo di Kassel, homo cui hebbi figura ne li anni dopo, mais mia mente non avea preoccupatione, sì convinta che niuna cosa haverebbe potuto rapir a la persona mia la gratia di Dorotea.

Adunque est chesto mio proposito, ch’io tornerò da Donna Dorotea et ella haverà vita di compagnia di Messiah, che la persona sua fonte di Luccicanza et homini di mondo non han comprentione de valore di Luce.
Adil sarà compagno mio, et io ha già detto lui che Dorotea est magnifica anima, ch’ei non potrà adoperar co lei lo poco riguardo che porta a la gente di popolo. Ho visto lui ne li riguardi di talune donne che compagnavan lo viaggio noster, quando passavamo notte ne le locande, et ei parea trattar persone cui conta gesta et cui divide letto come genti mancanti passati, ch’ei di nulla pare aver interesse di loro che non loro dinari & loro corpi.
Hebbi a domandare una notte per qual moto ei non m’avea allontanato, mais sì vicinato a la persona sua.
Hebbe Adil a rispondere:
«La persona tua pareva non ascoltare le parole mie, sì che ne la sera cui ho tenuto voce a la festa eri tu come immune a le magie mie; pareva che conosceva tua persona ognuno concludersi de frasi mie, et ascoltava me pe gentilezza. Hebbi poi a sapere de le visioni tue, allor che in notte avanti nel tempo ti trovai a lo mio capezzale co li occhi ritorti et corpo in preda a strana danza. Così hebbi a pensare che se io parlava di cose che non conosceva, tu taceva de sapere assoluto.»
Et hebbe ad aggiungere in seguito:
«Che nulla de le stranezze di mia persona parevan distoglier la attenzione tua da l’anima mia, quasi tu non vedessi le ferite mie. In primi jorni il mio era grande fastidio, nell’aver a fianco persona di tale curiosità su mente mia mais non su mie storielle, mais poi ho deciso di lasciar sì che qualcheduno ignorasse mia imaginatione, che semper mia persona ha avuto abitudine a essere ricordo et non presentia.»
Che forse non hebbe ad essere così per la persona mia, sì stanca de li salmodianti et desiderosa di essere homo di semplicezza?
Che pare a me che chi troppo vede est dannato a cercare li simili, che le comuni genti non san vedere oltre a le visioni loro.