Folle est colui che co la luce de Sole cerca luce da lanterna sua ne le hore di veglia; folle est colui che vede albero di pesca indove est albero di mela; folle est colui che ben sapendo de Regno de Cieli trastullasi con cose di materia.
Folle est ognuno, che ognuno ha semper in mente sua consolatione creata da imaginatione o mancante da imaginatione perde senno per cose di falso valore, quali li dinari, che non danno a corpo sollievo et non danno valore a animo.
Folle est Jacopo, che vedeva ne li commerci ognuni cosa obbrobriosa, et rinnegava moto di animo che dà cose per avere cose, così che ei, timorato da suo pensiero, celava infine tali affezioni d’animo; che ei credeva di non esser homo, sì che ognuno homo vuol la via de sentimento accanto a chella de sapere, et Jacopo era sì folle che non vede lo homo in sua persona. Folle est Julius, che lo timore di Dio est pe la persona sua Dio in tutto, così che ei non sa vedere in Dio altro che condanna, così cieco ne la visione de cose buone di Dio. Folle est Niccolò, che per studiare tal albero guarda radici, et non ha imagine di fronde, così che lui semper studia le radici pe vedere le fronde, mais mai alza capo et mai vede imagine pe integrità, solo parte che non sa portare a unione.
Folle est Adil, che nega di veder là dove la mente sua vede, sì che ei cammina per lo mondo co le mani su li occhi, figurandosi d’esser cieco come li homini di norma. Mente sua est sì folle che sa mutar verità in fasullità, et viceversa.
Folle son io, che posto ancor non ho, et visioni mie più forti di me negan la strada pe li homini, ch’io non sa se con lo operato mio la offesa sia a li homini o a Dio.
Che tutti son folli, che forse est chesta gran prova di Asuramasda, l’intender ne la follia di altri.
Chesto est Vero Homo, colui che ne le trame di Arimanno ha modo di veder lo volto di Dio gemello suo.

Ne la città di Kassel io & Niccolo salutammo la famiglia di Dorotea, in procinto di continuar lo viaggio noster.
Ero sì felice di aver avuto la figura di Dorotea ne la mia vicenda che lo saluto non mi diede tristezza, certo come ero che due anime affini quali le nostre non potevano a lungo rimaner in lontananza.
Giungemmo a roccaforte ne le terre di Hannover, et io dissi Niccolò che niuna cosa dove tenere in segreto, ch’io già sapevo che lì era lo padre mio, ch’io ero già stato in castello lì presso indove era padrone mio genitore; Niccolò nulla rispose, et niuna cosa diede me a intendimento.
In tal occasione la persona mia hebbe miglior ospitanza, che hebbi camera ne le stanze de signori, co letto et addobbi necessari. Niccolò disse me che haveremmo proseguito co cerusico Ubaldo li studi di piante fredde, e de li studi di medicina di quattro umori che Ubaldo era gran studioso de le afflizioni di corpo umano.
Havemmo sì diversi studi, tal che Niccolò hebbe non poca difficoltà a far seguire a la mia persona li intricati percorsi di medicina. Io ripeteva con gran fermento che mi portasse da lo padre mio, ch’io vedevo la verità de le cose di mondo, mais Niccolò trattava me come si tratta persona folle, et dicea me di non conoscer li genitori miei.
Accadde poi che fu jorno di confessione, et siccome era tal feudo di Chiesa Latina io doveva confessare miei peccati ne le celle di confessorio, et non davanti a li fratelli di fede, che li Puri han tal modo di espiare, che niuna vergogna & affare segreto devono avere.
Ero io in tal stanza di confessione, et parlava de peccati miei, che Niccolò avea detto me che in tal roccaforte vi era prete Puro et io potea parlare co massima libertà. Mentre diceva de mia mal idea de homini di mondo hebbi una visione, sì che la pesante tenda posta dinnanzi me venne meno et io vidi che lo prete era istesso padre mio!
Hebbi quindi a dirgli a gran voce:
«So bene che voi siete mio genitore, ch’io vedo oltre la illusione di Arimanno. So bene chi siete voi, massimissimo magister che avete me condotto a ognuna porta di mondo, sì che io imparassi…»
Mais le parole mie eran semplice pensiero, che l’anima mia da corpo era fuggita et io vedeva lo corpo contrarsi ne la stanza, et padre mio uscire da confessorio, et con voce sua alta che ha suono di metallo dire a lo corpo mio che haverebbe chiamato Niccolò, che Niccolò avea imparato a svegliarmi da mie convulsioni.
Grande ansietà era ne lo viso suo, che ei stringeva corpo mio folle come padre fa con figlio suo, così che io vidi lo volto suo lungo, et chioma come la mia di oro, et ancor folta barba. Volto suo era sì trascorso, che le rughe eran sì forti su li occhi & bocca, et fronte ampia. Ricordo sua cicatrice su tal fronte, et mai io dimenticherà volto suo.
Ne li jorni seguenti fui preso da follia, ch’io voleva ritrovar lo padre mio e dir lui di mostrarsi, sì che Niccolò diede me infusi di nero di Oriente & timo, sì che io avessi calma, tanto folle ero.
Mentre ancor lo corpo mio era debole da li infusi, Niccolò disse me de la nostra prossima partenza, che ne la Università di Bologna avevamo meta, et io sì debole che poco capiva de sue parole, che debolezza de sangue apre strada a mie visioni, sì che io hebbi a passare oltre un jorno in tal stato di confusione, tra sonno & veglia.

Lume di candele rischiara tal notti, sì fosse Luce di Verità che rischiara mia mente. Sì che io ho quasi timore a concluder chesta non conclusiva vita in narratione, ch’io mai hebbi a sentirmi savio come in codesti jorni sono. A tal punto, terminata mia storia, vedrò io lo mondo con confusione & caos tal lo mondo est, mais quando inchiostro detta legge ognuna cosa ha senso proprio.
Luce est Asuramasda, et a inizio de tempi era sola luce, sì che occhio altro non vedea che Asuramasda. Poi Ombra venne, co li eserciti di Arimanno, et cose impararono a essere di doppia forma.
Ricordo io iniziale viaggio co Adil, che in jorno ne Italia hebbi a vedere donna di facili costumi, che imprecava ella Dio et avea modi di noncuranza per persona accanto lei.
Adil disse me:
«Non t’ingannare, che ogni cosa ha due lati, come tal donna, in jorno sarà burbera, in notte molle come neve, che pur tu pari persona timorata quand’ecco che con Dio istesso le notti colloqui.»
Tal donna così hebbe a essere, che diede a me l’amor di Dio suo latino, trattava mia persona co gentilezza di donna raffinata.
Che Uno est Due, che Uno est non scindibile da Due, et così avrà ad essere fino a lo Zero, che Ruota di Fortuna semper avanti procede.

Giungemmo noi a Parigi, indove Julius salutò me con grandi abbracci et disse me che poco tempo mancava a grande jorno in cui persona mia illustrissima haverebbe aperto porte a mondo di Luce.
Dissi lui ch’io ben non comprendevo, che visioni mie erano ognuno jorno ancor più di mistero di jorni precedenti, così che io era convinto di aver visto lo padre mio et Niccolò negava, così accadeva che corpi mutassero, et segni divini divenivan simulacri di Diavolo.
Così ei hebbe a rispondere:
«Non darti preoccupanza, che tu sei ricettacolo di beni di Dio et altri in te vedranno di Dio li segni; unico tuo compito est essere, che tu est altare pe li fedeli devoti. »»
Così hebbi a comprendere de stoltezza de miei propositi, ch’io credeva di dover havere padronanza de visioni mie, mais mia persona altro non era che ciotola da cui persone haverebbero preso fermentazione.
Per li giorni di seguito, che lo viaggio co Niccolò hebbe a proseguirsi, io smisi di guardar cose di mondo, pensando in vece di cose di persona mia & destino mio.
Che persona mia, così Julius diceva, non era di mia proprietà, mais possedimenti di fedeli. Mais codesti fedeli eran sì variegati, sì che qui ceppo de mondo avea dimostrato me sua moltitudine. Fernando avea mostrato me de la malvagità de anime de Impero; Vescovi diversi di Chiesa Latina avean mostrato me cupidigia di loro falsa devozione; Donna Adelaide avea mostrato me vanità di potere.
Niccolò accompagnavami, mais ei certo non potea aver nomina di buon tutore di Messiah. Così era? Che persona mia avea posto tra mani altrui, et mani altrui incapaci in tal dovere? Con tal propositi ne la mente, et grande dubbio su vie di destino mio, io & Niccolò giungemmo a la città di Milano, persona mia in veste di semplice studente.
Accadde allora uno tra primi violenti dissidi tra case guelfe et case ghibelline, che in ognuna occasione di festa era occasione di guerra, co persone che rompevan finestre et altri che nascondeva randelli sotto a paramenti di festa.
In tal jorno di festa di senzasenno accade che io caddi ne lo sonno a fianco di Niccolò, et a risveglio mio gran dolore a la testa, et io era in luogo buio & stretto, luogo di carro, a fianco mio homini d’arme che dimandavano me silenzio.
Che era adunque accaduto?
Capii ne li tempi a venire, et ancor oggi io non sa dire quali esatte trame mi coinvolsero, de la verità di accadimenti.
Era adunque accaduto che persona mia avesse avuto fama ne l’Italia, che forse qualcheduno tra li Puri traditori avean raccontato a li judici di Chiesa Latina di mia persona, et così tal Severo di Mantova avesse saputo di mia persona, et con manovre ch’io ancor non so dire avesse saputo de viaggi miei et in Milano mandato homini suoi in gran segreto per rapimento. Era Severo homo di commercio, fabbricante d’armi co li segreti de normanni di Sicilia, et avea lui voluto far contratto co li vescovi di Roma, cui mancava protezione, volendo ei offrire armi pregiate più di tutta Europa.
Avea però Severo agito in qual modo per cui dovea convincer lo sacro concilio, et indi volea egli rapir mia persona, Messiah de Puri, et chiedere me d’ognuno segreto di Chiesa Pura, dicendo poi a Magistrae Madre Chiesa di sue utili scoperte; compratosi simpatia di Chiesa Latina haverebbe potuto far dinari co li commerci suoi ne la città di Roma.
Così accadde che per lungo viaggio su fiume & terra da Milano a Venezia homini suoi tenevan me in prigionia, co mandato fasullo che incolpava me di non so qual colpevolezza.
Non domandai loro pietà, ebbi sì a riflettere su persona mia, et su persone con dovere di mia tutelanza, che niuno potea difender me in miglior modo che me istesso.
Hebbi così viaggio silenzioso, co gran sofferenze che hebbi a imparar a paure de visioni mie, che homini d’arme a mia scorta avean timore di mia persona pe mie estasi, et non era con me figura quale Lisa, così io hebbi a combattere li fantasmi miei.
Giungemmo sì a la città di Venezia, che ognuno conosce, che est chesta centro di mondo et ha fama in ognuni luogo.
Est chesta città sì turbolenta, così che Severo avea deciso di svolger lì li affari suoi, in casa di sorella sua Lucinda ch’ella non abitava se non per brievi periodi di commercio.
Venni condotto per strade che eran come semper festa, co le case che cadevan ne le acque et genti di ognuno paese.
Severo era persona collerica, co folta barba ispida et occhio negro, co corpo de gran peccatore di sola et età matura; mi accolse in tal stanza, et hebbe a farmi brieve discorso, dicendo così me:
«Hebbe a giungere a le mie orecchie historia tua, tu che sei sventurato capitato ne le mani dei folli. Sei sì giovane, come m’avean detto, et dissero me che tu sei persona di gran intelligentia, sì che io ho voluto unir due cose: cercar adatto seguito a miei possedimenti, ch’io ripudio moglie et in homo ho speransa, et salvar anima buona da mani di stolti.»
Così ei mi disse, co tutto intento di esser me di fiducia, mais persona mia non avea più fiducia in homini di mondo, sì ch’io decisi di dar lui inganno così che io potessi trovar fuga in jorni prossimi. Mais Severo era persona sì astuta & ingannevole, che ognuno ingannatore conosce inganni altrui.
Diede me gran stanze, et vestiti, et addobbi, et lauti banchetti ch’io non onorava, et trattava persona mia come figliolo affezionato, sì che chiese me di dir lui di mia conoscentia, che tutto ei diceva dovea insegnar me per condurre buona vita.
Fui sì buon commediante, che per lungo tempo ei credette ch’io fossi persona ingenua & derelitta, di volontà a condur sua buona vita et ascoltar suoi insegnamenti per sfuggir da pericolo di oscure genti, facendo lui credere che poco sapevo de eresie di suo interesse.
Quand’ei hebbe a veder mie convulsioni, ch’io tutto hebbi a fare per non mostrar lui, mostrò tempra di homo saggio, che cercò di portar me aiuto et disse me che haverebbe posto fine a tal malanno d’animo, dicendo anco che haverebbe dato me ancor più protezione, ìi che ne le hore in cui io rimaneva in solitudine mia persona havea obbligo di rimaner ne la casa, et guardie sue controllava mia condotta; hebbi così a perder sperantia in miei propositi di fuga.
Accadde poi stupenda cosa, ch’io rividi bellissima Dorotea pe vicoli di Venezia. Era mia persona co persona di Severo, ch’ei svolgeva affari suoi et contempo spiegava me di affari di commercio, et quando ei avea affare da trattare lasciava mia persona con tutela di Aristide, apprendista suo. In tal momento, ch’io & Aristide attendevamo in compagnia di mercante di spezie, hebbi a vedere figura bellissima di Dorotea presso mercante lì a fianco, che con altra donna di tarda età guardava pitture straniere.
Attesi sì che elle proseguissero et profittando di distrazione di Aristide scappai tra la folla et presi mano di Donna Dorotea, anch’ella confusa da folla, et trascinai seco per altre vie & ponti, ella sì spaventata che non m’avea riconosciuto. Quando fummo sì lontani da tutori nostri hebbi a fermarmi et a mostrare mio volto, ch’ella riconobbe et rise di accadimento.
Baciatele le mani, dissi lei:
«Sapevo bene che destino noster era sol cosa, ch’io non hebbi timore a salutarvi, che sapevo che haveremmo avuto incontro.»
Et ella rideva, et disse me:
«Sembrate ancor meno studente di quand’ebbi a conoscervi, che condotta vostra pare propria di genti di Venezia. M’avean sì avvisata che tal città avea pericoli & sorprese in gran quantità…»
Era Dorotea ancor bella, sì più bella, che avea ormai tredici anni et imagine sua ancor più simbolo di Luccicanza parea.
«Ma devo andare, ora, che la parente mia haverà gran spavento et ella non sa mover passo sola, che ha gran paura di chesto luogo.»
Ella disse me, et io risposi:
«Est di lode vostra premura, mais non mia, così che io ho a chiedere altro incontro a prezzo di vostra libertà.»
Così ella mi rispose:
«Più mercante parete che studente… Ben andrà, che io domani stesso sarà in Chiesa di Santo Nicola et a finir di messa potrò rivedervi.»
Così ella disse, et io in fermento la baciai, et la portai seco fin a lo spiazzo indove era sua parente, così che non rimanesse sola, et pregai Aristide con tutto cuore mio che nulla dicesse a Severo, ch’io l’indomani avea colloquio con donna bellissima, et che ei aiutasse me in tal proposito o io haverei commesso follie. Hebbe ei a essere amico, che cedette a mie suppliche et con grandissimo rischio aiutò me in mio proposito, così che dicemmo a Severo che avevamo avuto fortuito incontro con Vescovo, et detto homo avea permesso mia confessione pe l’indomani in Chiesa di Santo Nicola.
Caso volle che tal Padre di Chiesa, Ludovico, fu poi sì gran aiuto a la persona mia.
Severo mandò dunque me & Aristide a la Messa, convinto come era ch’io avessi accettato li dettami di Chiesa Latina, et a tal Messa assistetti, guardando la adorata mia Dorotea che sedeva vicino a lo occhio mio.
Finita Messa salutai Aristide et corsi a le scalinate co Dorotea dinnanzi me, fingendo di non aver mai avuto colloquio. Hebbe ella a guidarmi in luogo lì vicino, darsena di casa che parea disabitata, et lì disse me:
«Che adunque volete, ch’io fin qui son venuta per aver ne lo passato jorno libertà?«
Et io risposi:
«Et io mai haverà libertà da voi, che siete sì unica perfetta ch’io abbia conosciuto, et mai Dio separerà noi, che le nostre anime son congiunte in fato, chesto so io et est chesto motivo per cui so ben che non sarà vera distanza.»
Ella hebbe a sorridere con modestia & ansia ne li occhi suoi.
«Così io credo non sarà, che son qui a Venezia con lo futuro mio sposo, che ne li anni a venire con lui haverà matrimonio.»
Strette le mani sue, risposi:
«Non datevi preoccupantia di chesto, che le trame de cieli son ben forti accostate a chelle di terra, che niuno potrà mai aver decisione su destino noster.»
Ella hebbe a sorridere timidamente, con sconforto in core, così ch’io aggiunsi:
«Non preoccupate la persona vostra, che mio sarà il compito di credere in tal destino, così che voi potrete viver con serenità.»
Hebbi poi a baciarla, et ella non si ritrasse mais timida si cingeva a me.
Così la salutai, co la promessa che haveremmo avuto altri incontri, tali che mai più ella haverebbe dubitato de segni divini.


Co l’essere di oggi tal dubbi son sì leciti, mais di nulla importantia.
Più che li anni passa più divino & umano divengon unica cosa, et chesta est sì tal paradosso pe Sacre Scritture che in talune notti la colpa mia divorami.
Asuramasda, et Arimanno, che tutto diviene uno, est sì ne lo essere mio ch’io non ha ora mai moto di preghiera che non sia comparabile a moto di volontà mia, che son le due una cosa.
Così io dissi, che destino mio et di Dorotea era unica cosa per volere di Dio, così ora può persona mia dire che destino mio et di Dorotea est unica cosa pe volere mio. Chesta est eresia, per Chiesa Latina & Chiesa Pura, sì che io non sono più parte di niuna, accanto a ognuna et in segreto avversario di ognuna.
Est tale Adil, che anch’egli non ha dimora et con gran zelo chesta cerca, che mondo pare ormai cosa sì grande che par che possa esservi luogo ancor non conosciuto a le genti et loro fede.
Jacopo disse me tempo addietro:
«Fede est gran cosa da temere come pericolo, che est cosa innata in tutte anime mais intelletto forma essa.»
Così est, che pare che ognuno homo abbia Fede differente, che ognuno usa differenti parole per istessa cosa.

Non più vidi Dorotea, et in jorno di nostro incontro tornai sì a la Chiesa di Nicola, che urgeva a persona mia mia libertà, sì ch’io capii di dover movere le trame di mondo che fino a chel jorno avean mosso me.
Tornai così a la Chiesa, chiedendo a novizio d’aver colloquio con suo superiore, et lo feci in tal modo ch’ei credette io dovessi prender tonaca.
Conobbi così lo Vescovo Ludovico, rara ispecie di homo di Clero che ben s’intendeva de li affari di Impero, su l’Impronta di Innocenzo Papa. Era ei homo sì anziano, da cranio pelato et clarissimi occhi indagatori, co modi di parlare di homo di buona indole.
Dissi lui:
«Ascoltate me, Padre, ch’io elemosino vostra misericordia, che li homini potenti han sottomesso me et io non sa co le forze mie trar me salvo da chesto avvenimento.»
Et dissi Ludovico di Severo, homo che dipinsi come tiranno & stolto, folle che cercava in mia persona seme di eresia per affari suoi, sì che teneva me prigioniero. Dissi di me ch’io ero studente in Parigi in viaggio pe Bologna colto a rapimento, ch’io ero fedele cattolico et incapacitato a comprender le trame de malvagio Severo.
Ludovico scoltò me, io credo più per fervore di eliminare lo eretico Severo qual io l’aveo dipinto che pe amor di mia persona, che lotta co eresia facevasi aspra ognuno jorno che veniva.
Ludovico decise sì d’aiutar me, et diede altri colloqui per li giorni seguenti.
Mentre io infittiva mie suppliche a Ludovico, Severo, stancato di elemosinar me con finta poca curanza nozioni su eretici, decise sì di adoprar maniere prive di gentilezza, et con chiarezza disse me che non mi haverebbe aiutato a condur buona vita s’io non avessi detto lui chel che sapevo. Suoi ordini perentori divennero preso minacce, sì che a passar di un mese da mio primo colloquio co Ludovico, Severo rinchiuse me ne la sua dimora, privandomi di cibarie & bevande. Cotal gesto, et mia mancanza non giustificata, ebbero conseguentia d’allarmare Ludovico che, conosciuto luogo di mia prigionia, subito mandò suoi homini per dar me libertà.

Fu mio operato degno d’homo di basso filtro, così io hebbi a considerare mie gesti, mais dissi me che in maligno mondo chiavi son maligne.
Oggi io penso chesta non sia malignità, che tutto ciò che est di homo est mistura di Asuramasda & Arimanno, et niuna azione est da condannare se non cecità ne confronti di Deità, mais tal est qualità, sì tal che non est homo a prender vera decisione.
Raccontata a Adil detta faccenda, disse me:
«Opera d’ingegno est, che gran vanto mover trame de potenti.»
Così io hebbi a comprendere che per mutare cose a la radice bisogna scavare, che chi spezza rami poco o nulla ha causato a albero. Chesto forse intendeva Niccolò co suo modo di agire, ch’ei sfruttava ombre create da fronde pe movere radici, sì che niuno lo vedesse.
In chesta notte fronde son smosse da forte vento, segno sì che nubi s’allontanano, et sperantia nasce che partenza noster non avvenga oltre. Mais so io che ancor un jorno manca a nostra dipartita, che sette notti saranno sì passate, et in sette passi tutto avviene ne le cose di Creatione, così come mio scritto.
Adil est sì tranquillo, ch’ei crede a mie parole, et seppur con poca umiltà ei attende che cheste notti abbian termine. Ei mai ha conosciuto rigore, che ognuna cosa che ha lui temprato fu esterna a lui, così che lui ben accetta impervie di poca facilezza mais incapace di dettarsi regole.
Vero contrario di persona mia.

Anche persona di Ludovico hebbi a tradire, che profittando di sua poca vigilanza fuggii ne la notte seguente, che strano moto mi avea preso, mistura di timore & follia, sì ch’io con immensa angoscia in core lasciai persona mia a le vie di Venezia.
Gesto mio folle, ch’io non avea essere di ciò che stava compiendo, come se passi miei sol si movessero, da le scale marmoree di suo palazzo a gelidume di canali, così bagnato & arrancante procedevo pe li porti, da tarda notte a jorno seguente.
Hebbe ad esser tal alba di mia vita come nuova nascita, che lo mondo pareva me di nuove mille forme, modo simile a quando hebbi conoscentia di Dorotea, così che io camminavo pe strade di confusione tutto guardando et tutto immaginando, co l’angoscia mia che fermentava ne parti più profonde di anima, che li Potentati la tenevano pe persona mia ben serrata.
Così movendomi sentii voce, sì forte & acuta che narrava historia, chesta voce di homo che come altri narravan a le genti aneddoti mercanziando come fossero beni di materia. Diceva chesta voce di historia di un uomo che tutti conoscevano ne le parti recondite di Chiesa, et era detto homo uno veggente, ch’ei parlava co spiriti & angeli.
Così diceva:
«Est ei ovunque, che muove li passi come fosse gigante et in sol notte passa da regno a regno; di tutto sa, mais ei muto, così che parla co genti ne la mente e chi ascolta lui sa di cose incredibili, sì bizzarre che genti perdon senno & deliranti guidano popoli di eretici.»
Avea chesto narratore pelle color oro bruno, et occhi neri come pece, et corpo si lungo & magico che co le mani facea sparir oggetti.
Ei dicea di sua persona:
«V’era una volta homo di nome Joglar in terre di Britannia, et tal homo fratello di Re et carissimo amico suo. Detto re era homo di alto orgoglio, mais tal era amicitia co fratello suo Joglar che solo chesti potea parlar di cose sue. Re morì, et lui seguì figlio suo Principe, fanciullo malvagio et incapace d’intender justitia. Principe odiava sì lo padre suo et ognuno sua amicitia, si che quando hebbe benedizione & corona cacciò Joglar da sue terre.»
Così continuava:
«Joglar andò allora per lo mondo intero a narrare storia sua et ogni cosa di Re fratello suo et Principe di malo core. In tutti i regni di mondo Joglar andò, et ovunque conobbe nuove historie, che tramandò a li figli suoi, che tutti come me portan lo nome suo, et narran de lo Re fratello che ha nome Justitia et de lo Principe che ha nome Stoltezza.»
Era chesto Joglar narratore Adil, da la pelle di Saladino, et ascoltai tutte parole sue, ch’ei sembrava come persona mia orfana mais conoscitore di molti paesi. Et ei era ancor più che, mancante vera Fede come pareva, avea dono di comprendere cose humane, così io hebbi a pensare ch’ei haverebbe avuto di me comprentione.