Da che ricordo Yveline non ha mai dato precisi avvertimenti educativi ai suoi figli. Le sue armi erano:
Preoccupazione e Silenzio.
Davanti a Moony che le diceva:
-Ed si è preso una sbronza.-
Con Ed dietro, seduto a tavola in attesa della cena, la sua reazione era il silenzio e l’ignorare. Non vuoi farmi conoscere la tua vita? Scontane le conseguenze in solitudine.
Cosa fa il figlio adolescente davanti a una minaccia così immane?
Scuse prostrate e le racconta tutto, anche quello che non ha fatto, in paziente attesa di vedersi ricompensato con un sorriso omnicomprensivo.
Se poi ci rifletti ti rendi conto che è l’ottica di una religione.
Dio Misericorde, âlRahîmu, che ti sprona a non peccare ma ti perdona poiché ti concede con la Vita la possibilità di errare. Per chi non crede in lui, per questi, nessuna Ricompensa nel Futuro.
Dio è dolce con i servi.

Ti esorta a peccare benché tu abbia nel cuore un innato timore della Gehenna, sempre pronto a redimerti.
Riuscirete ad essere timorati?
Mia madre è morta e io mi cerco un altro Dio.
Eppure dire semplicemente “attenti agli sconosciuti” sarebbe stato così semplice…


Nella mia vita ci sono troppe Deità.


Milionario rampante ai miei piedi, le mani sul viso e un mugolio rantolante-rabbioso-prevaricatore-prevaricato, e la lampada disposta in frammenti sul tappeto.
Era una lampada di ceramica dipinta verde effetto marmo, design minimalista, un ammasso informe che risaliva spiraleggiante formando delle dita amorfe, tra presunto indice e presunto pollice la lampadina senza marchio di fabbrica.
Se ora è dispersa sul tappeto sotto forma di pezzi di ceramica, polverina bianca sminuzzata e schegge nella trama persiana ci sarà un perché, gli oggetti non cadono da soli.
C’è un motivo a tutto.


È abbandonato aperto sul tavolo.
Tra me e Moony non ci sono segreti.
Portafogli celeste con nipponici superdeformed di angioletti asessuati, aperto come se qualcuno l’avesse rubato svuotato abbandonato sul tavolo.
Lo faccio con noncuranza mentre aspetto che il microonde cuocia le mie lasagne da cinque minuti. Sfilo le tesserine ripassando la vita di mia sorella, la sua tessera della biblioteca, quella con i punti del ristorante giapponese, scontrini con appunti di indirizzi e-mail.
E poi, con frenesia, rivolto a Moony che annoda treccine in bagno:
-Di chi è questo biglietto da visita?-


Non mi ha stupito sapere che Tournassat aveva sedotto mia madre.
È esattamente il tipo d’uomo che le sarebbe piaciuto e che per perversa discendenza attrae anche il figlio.
Non mi ha stupito sentirgli dire che certe cose accadono, che la gente s’illude e non ci si può sposare con qualsiasi donna ci appassioni, che non può sposare tutte le madri sul lastrico con due figli piccoli a carico, che certe cose si imparano con gli anni ma c’è sempre qualche povera illusa che si fa fuorviare dalla passione e dal bisogno urgente di un affettivo sostegno finanziario.
Affettivo sostegno finanziario.
Non mi ha neanche stupito la sua perversione generazionale, il suo noncurante imbarazzato divertito modo di rivelarmi che appena ha sentito il mio nome sul mercato, appena ha visto occhi familiari e ha avuto conferma da Serge che sì, ero io, Edward come il figlio di Yveline, Edward Macard il figlio di Yveline Trastet, il suo primo ingestibile impulso è stato quello di perseverare con l’albero genealogico.


Moony mi ha fatto ripetere la domanda.
-Di chi è questo biglietto da visita?-
-Dell’agente… Te l’avevo detto, no? Dell’uomo che mi aveva proposto di fare la modella…-
Questo biglietto da visita non lo ingoio.
Bruciare sulla fiamma del gas, brucia fuoco i peccati umani. Bruciano Sodoma e Gomorra, nessun’anima pura le salverà.
-Non hai accettato, Moony, non hai accettato.-
-No, non ho accettato. Non voglio fare la modella…-
-Non hai accettato le sue avances e i suoi regali.-


Ecco, mi ha stupito il suo coraggio.
L’ineluttabilità del suo tono divertito, il cinquantenne che nasconde le caramelle nell’armadio da quando ha cinque anni, la muffa che le ricopre, gli anni dell’attesa che gliele rendono ancor più appetitose.
La semplicità fanciullesca con cui mi rivela i suoi trastulli mentali.
-Quando ho saputo della morte di Yveline non ho potuto farne a meno. Qualche calcolo e ho capito che ormai tu eri poco più che maggiorenne e Monique poco meno che maggiorenne. Come potevo farne a meno, quando ti ho riconosciuto alla festa di Assemat?-
Hai riconosciuto mia madre, non me.
Yveline, quando avevo tre anni dormivo nel tuo letto. Tu mi hai fatto dormire nello stesso letto in cui dormiva questo uomo da puttane. Tu mi hai dato in anticipo di diciassette anni la saliva di quest’uomo sulle guance.
-Siete molto, molto simili, e parlo della pura interazione umana… Dei vostri sguardi perentori che dissimulano una certa arrendevolezza. L’incapacità di ignorare un fare galante, un uomo che conosce la buona educazione e il buon gusto…-
Dammi tuo figlio minorenne e fammelo stuprare.
Niente di cruento, solo una botta per rompere la sua verginità e il tuo orgoglio di padre.
-Tua sorella, poi… È quasi identica a Yveline, con un’accortezza innata nei modi di fare, un rispetto quasi solenne del corteggiamento che le è dovuto, una ritrosia pudica e misurata davanti ai giusti complimenti, quel modo di dire dicendo no…-
Giuro, ho pensato prima di agire.
Ho pensato che nelle sue parole non c’era la benché minima intenzione di provocarmi, il linguaggio forbito non era né una delicatezza nei miei confronti né un atto derisorio.
No, quest’uomo è sincero, totalmente sincero con sé stesso e con me, e coraggioso nell’esserlo.
Quest’uomo è, esattamente, Il Nemico.
Tu, Mortale, come hai osato volgere lo sguardo su mia sorella?

Niente più e niente meno che il fantasmagorico nemico biblico, bidimensionale e risolvibile in uno scontro frontale senza ripensamenti o rivincite.
Non puoi scendere a patti, trovare compromessi, contemplare le sfumature e i punti di vista, agire sulla giusta ammonizione che nella vita non tutto è bianco o nero.
Io sono Bianco, lui è Nero.
Dio guida il mio polso e il mio pugno nel cuore del miscredente prevaricatore, mi fa sentire coerente e corretto mentre sento nettamente il suo sopracciglio spaccarsi e il brivido risalire i miei tendini e farmi vibrare il cuore.
Se non rimangono a voi neutrali, se non vi offrono la pace e non trattengono le loro mani, allora prendeteli e uccideteli là dove li trovate. Contro questi Noi vi diamo una autorità evidente.
Sono saldi come la Fede i miei calci sulla sua anca, sul suo stomaco, sui suoi avambracci decrepiti che scricchiolano, e saldo è il mio braccio nel rovesciare quest’uomo per costringerlo a guardarmi, dritto dritto negli occhi per un istante, prima che io glieli chiuda entrambi svincolandomi il pollice dall’articolazione.
Non venite meno nell’inseguire le genti. Se soffrite, anche loro soffrono come soffrite voi, ma voi sperate in Dio, nel Quale quelli non sperano.
Saldo è il mio Spirito nel credere che il Giardino è oltre la materialità terrena del suo corpo.
La Mecca è stata costruita sfondando cave di marmo.
Do il sacro diritto del libero arbitrio a quest’uomo.
Non dovrai ringraziarmi, no, contempla il dolore ora perché nessun altro avrà il coraggio e l’abnegazione che ora ho io nel ferirti.
Nessuno, dico nessuno dopo di me, avrà il diritto di rimanere marchio a fuoco nella tua mente. Un’opposizione che non puoi confutare, il punto di vista assoluto e giusto di chi ripudia la legge universale perché è convinto di avere Dio in sé.
Sono nella tua carne, nel sangue che irrora i tuoi capillari; sento tutto di te, perché sono te, sono la consapevolezza che non avrei voluto avere di quanto tu mi sia vicino, di quanto io e te siamo affini, di quanto sei umano e lo sono io, e non posso colpirti senza sentire il dolore in me, e non posso non colpirti sentendo il mio dolore in te.

Una bistecca fatta a pezzi non è più una bistecca, al massimo puoi farci un hamburger.
Fremente, rantolante, poco più di un uomo vivo.
Non so neanche se è ancora uomo.
Non so se ha ancora un naso, se gli ho rovinato la vista, se una costola gli ha bucato il polmone.
Non lo so, e non saprei capirlo.
So: ho fatto qualcosa.
So che un tempo, probabilmente secoli fa, avevo paura di ricacciarmi nell’angolo come osservatore degli eventi, vittima passiva, un me proiettato nel futuro che si rammarica di non aver agito quando poteva.
So: ho agito appena potevo.
E c’è nella mia testa una musica assordante, che copre tutto il resto. Non riesco a guardarlo, non riesco neanche a ricollegare quel feto umano invecchiato alla parola che ne designa il nome. No, quello non è niente. È un’immagine a fianco dello schermo, la colonna sonora montata sul film sbagliato, la fotografia di qualcosa che non sono.
Non puoi guardare ciò che non è, e non voglio vederlo.
Non ho nulla a che fare con quel grumo di pellicola, con questa stanza e i suoi odori, la polvere posata sui lampadari di cristallo da che sono appesi, il maggiordomo fantasma che mi apre la porta e parla come se fosse vivo.
Non è successo nulla, nulla, e lui mi guarda e mi dice nulla, nulla, il silenzio di quando non è successo nulla.
Il silenzio sul nulla dell’autista che non ha volto e forse non l’ha mai avuto. L’ho mai visto il suo volto? Il suo volto non esiste e io sono il nulla tangibile della mia coscienza.


Dio cambia forma di nuovo, ed è Jehova vendicatore nel corpo di Serge che si china e si rialza, si china e si rialza, e le sue braccia sono fruste sul mio corpo.
Pensavo non mi sarebbe mai accaduto, e mentre accade non ho il tempo di pensare.
Dio sa quel che fa.
Non li sento neanche i suoi colpi, il ritmo inesorabile che li scandisce uno dopo l’altro, le contrazioni perfettamente sincroniche del mio corpo chino prostrato chiuso su sé stesso, illuso che serva a qualcosa coprire il viso e il ventre, che la paura sia un dolore che parte dal corpo e arrivi alla mente.
Hai paura di Serge, dannato, hai paura di Serge, perché?
Che può farti questo misero uomo che davanti a Dio tutti sono miseri?
Che può farti, dimmelo?
Non potresti sollevarti e affrontare i suoi colpi a viso aperto, sentenziare ad alta voce che non hai timore di subire la stessa sorte che proprio ieri ha decretato a un altro misero?
E Thérèse singhiozza al tuo fianco, implora per te una pena che non vuoi ma che accetti, lieto, la speravi questa pausa, questo momento in cui sporgere gli occhi oltre la fessura delle tue braccia e guardare che forma ha il mostro che ti fa tanta paura, cercare di convincerti che il babau non è nell’armadio guardando tra le ante.
Pensavo non mi sarebbe mai accaduto di subire passivamente punizioni corporali dal mio magnaccia empio del proprio potere come tutti i magnaccia che nella storia ho visto nei film nei libri nei fumetti dare colpi a remissive prostitute singhiozzanti.
E singhiozzo.
-Ha sbagliato, ma tu hai esagerato…- dice Thérèse, singhiozza sincronizzata Thérèse e si fa a scudo del mio corpo.
Ho sbagliato ho sbagliato ho sbagliato, ma come convincerlo che ero nel giusto? Lui che mi guarda irato e collerico, gli occhi anemici irrorati di sangue e la determinazione di chi è nel giusto e con giustizia pronuncia la sentenza.
Che importanza ha tutta la convinzione che avevo nel dirgli spiegargli i miei perché?
È furbo e mi ha colto nel sonno, impreparato e annebbiato, e prima che potessi ricordarmi chi ero e dov’ero sono iniziati i colpi e le imprecazioni atterrenti.
-TU TI RENDI CONTO DI QUELLO CHE HAI FATTO?-
Urla così tanto che devo rendermi conto che quella frase è costruita per essere una domanda, e prima che possa rendermi conto che non esige risposta:
-TI RENDI CONTO DELLA CAZZATA CHE HAI FATTO? DELLE CONSEGUENZE DELLA TUA CAZZATA?-
No, sì, non lo so.
Ci ho riflettuto, giuro, ma ci sono troppe varianti.
-Thérèse, esci.-
-Non lo colpirai più, vero?-
Banalmente Serge odia ripetersi.
-Esci.-
E Thérèse che mi ricordava che questo corpo è mio e in qualche modo devo renderne conto esce.
Serge è in ginocchio, al bordo del letto, incombente nella mia prospettiva, la camicia dal colletto stortato che esce dai pantaloni e la giacca aggrovigliata sulle spalle.
La sua espressione mi dice che non è colpa sua se sta facendo così.
Mi sta convincendo.
-C’è un motivo.- dico esattamente come sentire le tue corde vocali rompersi e schioccare sulla gola, un male tale da farmi chiudere gli occhi, e quando li riapro ho il suo viso a millimetri dal mio, i capelli tirati per farsi guardare negli occhi. Tutta la menta del suo alito.
-Tournassat starà zitto e non rovinerà né la mia reputazione né la tua vita, ma vuole qualcosa in cambio e tu glielo darai. Poi mi darai le tue rispettabilissime motivazioni.-
Il mio annuire come i miei capelli che strattonano la sua mano.
Hai davanti la porta dell’Inferno e quella del Paradiso, manca un passo per ognuna. Quale cosa ti impedirà di lanciarti tra gli angeli?
-Vuole te e Monique per una notte. Una notte gratis a Tournassat con due fratellini che daranno la migliore performance mai data. Pagherai la tua parte e quella di Mon.-
Lasciare una foto di tua sorella ai diavoli per masturbarsi.
Quel pervertito vuole convincersi di scoparsi me e mia sorella assieme.
Vuole che io lo convinca di questo.
In silenzio umiliato.
-Dillo, Edward.-
-Ma non posso…-
È un singhiozzo, e il suo strattone mi sbarra gli occhi e mi fa temere non so cosa posso temere più di quel figlio di puttana convinto di scoparsi mia sorella.
-Dillo. Dì che lo farai.-
-Ok. Lo faccio.-
Non la voglio vedere la sua espressione. Non voglio il momento di commiato, il perdono, vivere l’attimo in cui dovrei sentirmi sollevato.
Avrei bisogno di comprensione, compassione, misericordia, qualcuno che mi dica che la giustizia che ho nel cuore non è vendibile in confezione.
Non voglio vedere Serge che fa il magnaccia.




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