-È proprio uno schifo.- mi dice Mat, e mi fissa gli occhi sporto in avanti, come se ricercasse in me la conferma della sua opinione.
Questo mi piace di lui. La sincerità. Non ha filtro tra idea e parola, e dice ciò che pensa senza riserve. Non ho mai capito se sia una particolare forma d’intelligenza o una particolare stupidità.
Anche adesso, le sue labbra tentennano un attimo. Aspetta, forse ho detto qualcosa di sbagliato… Una fedeltà assoluta all’amicizia, quando ci si promette “dimmi sempre quello che pensi”, oppure l’incapacità di stanare il proprio pensiero.
Lounge di sottofondo, appena percettibile, soffusa. La sala degli aperitivi dell’Istant, un rettangolo di vetro con un fungo spento, una di quelle stufe alte due metri che irradiano un calore indicibile. La sala vuota, le luci sono spente; spenta dall’ombra del palazzo.
È mezzogiorno, e stiamo bevendo un aperitivo nei delicati divanetti del caffè, pelle marroncina sbiadita. Mat ha scorso la lunga lista di drinks finché non ha letto layers.
-Come photoshop?- mi chiede Mat, e ammicca. Lo ordina alla cameriera.
Siamo già stati qui, a una mostra di sua sorella, pittrice che non dipingeva, a guardare quadrati di lamiera su cui era incollate lattine, sacchi, grumi di colore rappreso. A bere gratis dalle caraffe di liquidi alcoolici colorati, in un locale in cui mai, sottolinea Mat, mai, darebbe tutti quei soldi per bersi un caffè.
Un Martini Cocktail, grazie.
-Non c’è Martini nel Martini Cocktail.- mi dice lui passandomi la confidenza sotto banco.
Lo so, me l’ha detto Anja, con le stesse parole, e a lei l’avrà detto qualche cliente, con le stesse parole. E poi ha aggiunto che dovevo “imparare a farmelo piacere, e capisci la mentalità. Come quando vai al sushi bar. Se non mangi con i bastoncini non entri nella mentalità e non puoi apprezzare il cibo.”
E io le ho riso in faccia, e lei ha sdegnosamente fatto lo stesso. Era una provocazione, puntiglio sul Martini Cocktail bevanda finta da puttanieri. “Non ti piacerà mai, ma puoi dargli un nome diverso.”
Sì: vaffanculo.
“Non sarai mai come me, a me piace visceralmente, io sono nata meglio di te.”
Ninfomane.
-Insomma, non c’è altra soluzione?- chiede Mat, e sorseggia il suo layers che sfuma dal blu profondo della sommità all’acqua-trasparente-ghiaccio del fondo bicchiere.
No, se sei ninfomane e ti piace il Martini Cocktail.
-Forse sì, ma adesso c’è questo. Sai quanti soldi ho fatto da quando ho iniziato?-
Scuote la testa e continua a guardarmi dal profondo delle occhiaie perenni. Non è mancanza di sonno, non sono le droghe. Forse in minima parte il tempo che spende a fissare miniature alte un centimetro o monitors. È nato così, occhiaie da sguardo vagamente costernato.
-Mille euro. Mille. Euro. In…? Dieci giorni…?-
Scandisco bene le parole, mi fingo sorpreso. Mi sono passati tra le mani banconota per banconota, e li ho ricontati tutti più volte. Saprei riconoscere un falso.
Gli occhi si sbarrano nelle voragini e la parte trasparente del drink finisce dritta nella sua gola, il pomo d’adamo si immobilizza.
Non dovrebbe stare sopra la parte trasparente? Insomma, la vodka o quel che è non dovrebbe essere più leggera del blue curaçao?
-Mille?- chiede. –Ma Ed… stai scherzando?-
Scuoto la testa.
No. Non lo vedi?! Non si vede dalla mia faccia? Non è cambiata totalmente? Non vedi sulla mia pelle tutto quello che ho fatto?
E la mia voce? Non è più nevrotica, e bassa, e squillante?
-Ecco perché mi hai portato qui per offrirmi da bere…- dice, e rotea la mano sopra la testa. Squadra il bancone, le file di bottiglie, la campana di vetro con sotto le brioches, tutto sotto la nuova ottica di cliente veramente pagante. Ci sono cinque sgabelli alti al bancone, morbidi cuscini di pelle rossa incastrati sulla cima. Le luci sono bluastre, di quelle che ti cancellano ogni ruga o brufolo. Poi c’è la sala cocktail, o sala aperitivi, ed è anche per questo che sono qui. Devo tornarci stasera in attesa che qualcuno si ponga davanti a me.
-Dai, è una merda…- prorompe Mat, e nel suo tono c’è la lamentela di secoli di borghesia decadente disillusa. -Cazzo, si trova qualcos’altro… Un modo…-
-No, Mat.-
Scuote la testa. Perché? Pende dalle mia labbra troppo sicure di ciò che dicono. È il Martini Cocktail. Dà charme.
-Semplicemente no. Ho trovato un modo, capisci? Ieri sera ho portato Monique a mangiare italiano, e le ho anche preso una sedia da scrivania che le piaceva…-
E non ho più giustificazioni da addurre. No, perché questa merda la conosco già e mi consolo pensando che è la peggior cosa che possa capitarmi davanti. No, perché mi piace avere le tasche piene di pezzi da cinquanta e da cento e sballare completamente le proporzioni. Cinque euro ora sono… spiccioli. E ho già i soldi per l’affitto e la luce, la bolletta arriverà fra tre settimane, e, da che vivo, mia madre non ha mai avuto i soldi delle bollette se non una settimana prima. Se andava bene.
-E Moony cosa dice?-
Le sue labbra si fanno sottili e indecise, le mie si bloccano sul proemio e mi perdo nella musica di sottofondo. È fatta apposta, lo so, ti rilassa, sballato del cazzo, quando la Trance ha già tartassato abbastanza le tue orecchie bucate. Ti promette l’Eden ritrovato, quella spiaggetta notturna fatta di fari blu in cui ti gongoli ai primordi dell’umanità…
-Beh…- continua lui, e reclina la testa su un lato. –In effetti è meglio non dirglielo…-
Il rumore del traffico disturba il mio idillio no-spazio no-tempo e una folata di smog mi insudicia le narici. Il –dlin dlon- della porta (suono artificiale) arriva in ritardo, ed entrano due ragazze.
-Modelle…!- esclama sottovoce Mat, e me le indica con lo sguardo. Mi indica Mon, gonna tre-quarti top sandali blu metallizzato; mi indica Anja, che ride di gusto, pantalone aderente bianco camicia nera. E Mon mi vede, e mi indica con lo sguardo a Anja. E Anja mi vede, e indica Mat a Mon.
Il mio sguardo toglie il disturbo in fretta.
-Sono due puttane.- dico prima che possa dare un qualsiasi commento, e la sua espressione si fa perplessa, poi crucciata, poi perplessa, mentre i tacchi ticchettano dietro di noi.
-Cioè… Le conosci?!-
Sì, e sono venute qui a sondare il locale come ho fatto io.
Mat sta per chiederlo, ma riesce a stare zitto. Non è che me le presenti…? Si contiene a fatica, ma è tutto così… troppo… Semplice e facile. Che mi costa?
-Dai… Andiamo via.- a lui costa tantissimo, ma si alza. –Andiamo da qualche altra parte.- e si dà forza con il residuo blu rimasto.


Serge affitta delle stanze d’albergo ogni notte, un albergo diverso per ogni giorno della settimana, un nome diverso in ogni registro. Mai, s’intende, il suo.
Suite lussuriosa, due stanze, salotto, vasca a idromassaggio, frigobar. Servizio in camera, vietato l’uso.
Ci vai prima di iniziare, o tra un cliente e l’altro, o quando hai finito, e lui a volte è lì, attaccato al portatile, in vestaglia o in completo giallo canarino, o celeste, o rosso, o magari nudo, gli manca solo il boa di piume e il Martini Cocktail, ma beve Rum. Ron, pardon. Lo pronuncia ron.
Gli dai la sua parte, il suo terzo fisso senza eccezioni, e lui ti fa sfilare davanti la lista della settimana a venire, il lavoro, le serate, le feste. Dove devi essere e dove non devi essere. Con chi fare cosa e chi non vuole assolutamente che. Tu. Fai quello che decide. Dormi lì, te ne vai. È un salotto da the, nulla di più, nulla di meno.
A volte inciampi nelle persone, anche se c’è quasi sempre una luce accesa, qualcuno che guarda cosa danno in TV (e in quei salotti trovi le poche persone che non si fissano sui film porno ma guardano documentari sulla storia cinese), qualcuno che parla, qualcuno che dorme.
Tre o quattro persone in una Suite da quattro; o magari una sola persona, a volte due, tre per letto due sul divano, due in un letto una seduta ad attendere l’ora del prossimo cliente.
Avevo appena finito con la signora Dalloway.
Non è il suo nome, no, ma quello non lo ricordo e comunque non è necessario che io lo sappia. A lei va benissimo “cara”, “moi” (pronunciato all’italiana), e in momenti di estrema passione puoi (devi) lasciarti andare a scelte stilistiche più ardite, come “il mio bocciolo selvaggio” o “sovrana del mio corpo”.
Non sto scherzando.
La signora Dalloway ha cinquantatre anni, ne dimostrerebbe sessantatre, grazie al botox si mantiene sui quaranta. Mal portati.
Ha un problema con i fiori, o meglio, i fiori hanno un problema con lei. Centinaia di qualità di piante da fioritura recise e raddrizzate in vasi, sparse a ventaglio sul tavolino in salotto, abbandonate con artificiale casualità sul piano della cucina, sulla specchiera in bagno fermate da un nastro, sul letto a formare un cuore (non sto scherzando), oppure alla finestra come cadaveri penzolanti secchi.
Begonie sulla tazza del cesso, mimose sulla porta d’entrata, fiordalisi sul poggiapiedi, mughetto nella cristalliera.
E lei sembra Poison Ivy in pensione, con le labbra rosso scarlatto frutto maturo e l’ombretto verde profondo pianta esotica, le ciglia inzuppate nel mascara che le fanno sembrare gli occhi due ragni schiacciati in un prato.
Se non avessi dovuto constatare (e il botox non fa miracoli) avrei detto con certezza che la signora Dalloway è in realtà un uomo che si finge donna. Ci sono donne che nascono con l’animo di un uomo. Lei è nata con l’animo di una checca.
Al culmine del suo piacere, credo ormai impazzita e stremata dai ferormoni in pillole (e il testosterone per ringiovanire) mi aveva urlato, suadente:
“Mio principe portami sulla tua naaaveee.”
Poi si era accasciata, sciolta, decomposta sui fiori, e io da copione l’avevo accarezzata in volto con le dita sudate e, baciatale la fronte, le avevo sussurrato: “Devo andare, mia cara.” Con costernazione e coraggio.
I soldi, come d’accordo, erano in cucina, anta dei piatti di ceramica giapponese, quella a destra sopra ai fornelli. Sotto al primo piatto.
-Aspetta…- mi aveva fermato, e indicato lo specchio sull’armadio (come può questa donna svegliarsi ogni mattina vedendosi riflessa?). –Guardati, guardati e capirai i motivi della mia passione.-
E io mi ero guardato, alla luce di una lampada di sale giallognola, nudo e ancora rivestito delle fantasie su richiesta, in una posa da statua greca/comandante dell’esercito prussiano.
Mi ero guardato, il profilo ancora indistinto, il bacino che risaliva e le braccia che scendevano, abbandonate sui fianchi, il bicipite levigato e le mani sottili. L’addome piatto, il petto scolpito e glabro, la clavicola sporgente.
Tutto quello che lei voleva vedere in me, io lo stavo vedendo.
E ho scoperto il narcisismo, guardando il mio riflesso aitante e sullo sfondo una ruga umana addolcita dalla chirurgia. La bella e la bestia. La bella, e basta.
Sono uscito dal suo appartamento in centro ascoltando il rumore della maglietta che sfiorava le spalle, il fruscio, la sensazione di stoffa morbida sulla pelle giovane, elastica.
Sono arrivato all’albergo così, ammiccando a me stesso mentre il taxista seguiva la radiocronaca dell’amichevole, sorridendo alla donna della reception e all’uomo delle pulizie.
Ehy, sono qui, guardate.
Poi sono entrato nella Suite.
Serge, questa volta in camicia morbida slacciata, seduto a un tavolino triangolare a lavorare dati su un portatile.
-Oh!- aveva esclamato all’interno di un suo largo sorriso, e si era voltato verso di me a guardarmi, rimirarmi, ammirarmi.
Mon, seduta su una poltrona color vaniglia con i capelli artisticamente sciolti sulle spalle nude, mi ha lanciato puro astio, sfiorandosi un seno per accertarsi di esistere.


-Dai, ti accompagno.- dice Mat, e mi mette una mano sulla spalla. Il suo gesto rallenta, scatta come un videogioco mal caricato, alla fine si posa. Le dita non le appoggia.
Lo guardo. Su, dai…
-Uomini e donne, così, entrambi?- mi chiede, e cerca di non far trasparire dalla sua mano l’esitazione.
Mi metterei a ridere, ma mi farebbe piangere.
Gli guardo la mano, sui polpastrelli la vernice nera delle sue miniature. –Sì, anche gli uomini. Capisci cosa dovrei dire a Monique? Suo fratello se lo fa mettere in culo come i finocchi.-
-No, beh, è meglio non dirglielo…- La mano è lì, immobile, i polpastrelli congelati a mezz’aria. –Ma stai tranquillo, a me non cambia… Voglio dire, siamo amici, a chi non è mai capitato di pensare, anche così, che capita qualcosa con un uomo…-
Stringe la spalla, finalmente, e sorride d’incoraggiamento. Non s’incoraggia molto.
-Fartelo pestare in culo è un po’ diverso che pensarci.-
Odio parlare così e sputarmi addosso, ma il cinismo è l’oppio dei popoli. Mi fa sentire talmente distaccato…
-Ok, scusa.- dice lui, e abbassa la testa. Mi stringe la spalla più forte. –Ok, mi fa impressione. Ma dico la verità, a me non cambia. Cioè, lo fai per Monique. Ma se anche tu lo facessi perché ti piace…-
-Ma non lo faccio perché mi piace.-
-Ma dico che anche in quel caso non mi cambierebbe, ecco. Siamo amici, no?-


Così mi rendo conto che sono tutti lì a guardarsi o farsi guardare,
Mon che cerca nella televisione il proprio riflesso, e Anja che a occhi socchiusi finge di essersi appena svegliata, il ginocchio infilzato nella coscia tornita e il viso immobile a tre quarti. Ti ci abitui, a dormire così, con mesi e anni a studiare un compromesso accettabile tra estetismo e comodità.
Conrad è seduto accanto a Mon con le braccia distese ai lati, in modo che i bicipiti si tendano, le spalle si alzino, e l’ombelico che s’intravede dopo l’ultimo bottone della camicia.
O forse sono io a notare tutti questi particolari. Con quale abilità Mon sappia darmi il suo sdegnato profilo migliore, e come Conrad sappia ricordarmi che un ventre tonico può essere più tonico del mio ventre tonico.
Serge veleggia. Ali spiegate larghe su questa massa di carne bon ton – Siamo quelli che sanno ciò che vuoi. Li ha cresciuti tutti lui, microlesione dopo microlesione.




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