-Non capisco perché vuoi farlo.- mi chiede Mat.
Ha in grembo un set di lenzuola azzurrine con dei ricami cuciti sopra. Fiorellini bucati con tante foglioline bianche, tutto pressurizzato in vecchi sacchetti con zip di plastica.
-Voglio sistemare.- e tra le mie mani passa un atlante dell’88 con la copertina plastificata e le pagine spesse. Me lo ricordo, questo, con la rilegatura cucita. Quanti libri fanno ancora così?
Il punto è che voglio un indirizzamento. Una dritta. Guarda, si fa così. Yveline, mia madre, non mi ha mai detto si fa così su cose veramente utili. So fare la marmellata a bagnomaria, perlomeno in teoria, e togliere l’amido del riso dalle pentole, e infilare le stringhe correttamente nelle scarpe, ma non so come si porta avanti una casa.
-Perché li apri tutti?- mi chiede Mat mentre gli passo Piccole Donne, Piccole Donne Crescono e Piccoli Uomini. Ricordo solo il primo. Jo. O Joe? O Joh?
-Voglio vedere se sono cuciti. La rilegatura. O se sono incollati.- e gli passo un’enciclopedia in un unico grosso volume, mai vista. ’84, e la firma di mia madre in seconda pagina, uguale per tutti i libri, gli assegni, le giustificazioni. Lineare, lettere tonde leggermente inclinate. Persino la Y è morbida.
Gliela passo.
-Ma stai cercando qualcosa?- mi chiede Mat, e guarda desolato la vecchia lampadina appesa al soffitto storto della soffitta.
-Niente di preciso, ma voglio vedere se trovo un paio di cose… Hai presente quelle cose che ti rimangono impresse nelle memoria, tipo immagini o suoni, ma non ti ricordi più dove stavano? In che contesto?-
Mat annuisce, e comincia ad aprire un altro scatolone. –Sì, c’è un videogioco che ho in mente in questi giorni. Tu eri un omino che sparava, come in tutti i vecchi videogiochi pixellosi, e c’erano tanto schermi e… Non so come spiegarti… Ma ad ognuno io avevo collegato qualcosa. C’era quello che mi faceva venire in mente un film di fantascienza… Quello che era un cimitero… Quello che…-
Quello che ti spiega come si porta avanti una figlia. Monique non è mia figlia, ma è minorenne. Ha l’età di una figlia, ha il cervello di una figlia, e anche io. Ancora.
-…Quello tipo castello medievale… E tu entravi in ogni schema andando su dei simboli, dallo schermo principale… Insomma, non aveva alcun senso, come tutti i vecchi videogiochi. Tiravano dei pretesti assurdi…-
Un mio quaderno “privato” di quando ero alle elementari. Un’estate, forse. Stavo progettando un’opera teatrale, con tanti disegni a pennarello degli sfondi, i personaggi principali… Un cacciatore, un bandito… Alle elementari avevo ancora questi stereotipi da guardie e ladri?
Vicino al Cacciatore che entra nel bosco canadese (perché canadese? Ma so che era canadese) un pasticcio di Monique. “È il mostro!” mi aveva detto quando mi ero incazzato. Arrabbiato, perché i bambini si arrabbiano e non si incazzano. Così i genitori fanno l’amore e gli altri adulti fanno sesso.
-… Anche perché non sapevo leggere, quindi cliccavo a caso, e avevo memorizzato che cliccando uscivo dalla casa e cliccando parlavo con il maggiordomo…-
Il punto è che sto cercando il punto perché non ci so arrivare. Ma deve esserci un punto, un motivo o modo per cui una persona da un giorno all’altro sa come il mondo funziona. Con tranquillità prepara la cena e va a dormire, e domani andrà al lavoro, e tutto questo mondo degli adulti sembra funzionare con tranquillità.


Andiamo a ieri notte. Dopo la notte dalla signora Dalloway, dopo che Serge mi aveva detto, in piedi sulla porta, mentre io andavo verso casa: “Mercoledì sera torna qua alle 10.”
Andiamo a me nel letto freddo, nella Suite deserta, in maglietta e boxer a guardare il soffitto e pensare con quale cruenta semplicità tutte le stanze sembrano stanze.
Andiamo al punto.
A Serge disteso di fianco a me nudo, la mia mano tra i suoi testicoli e la sua tra i miei.
-Questo punto.- mi dice, e il mio corpo vive l’emozione del puro sterile piacere fisico. Me lo indica, preme, smuove, e io mi contorco le costole per non contorcere il corpo.
A Me che pensa: Diotipregonontoglierequelditotiprego.
A lui che lo toglie e aspetta che gli mostri che ho capito.
A me, che mi guardo, lucidamente, e mi chiedo cosa ho non-chiesto.
A lui.


Non vedo Monique da due giorni.
Davanti alla porta di camera nostra, con un cerchio di cartone in alto a destra con una luna disegnata e colorata doviziosamente a tempere. Luna bianca-azzurra su un piatto cielo notturno. Moony, scritto sul bordo inferiore.
Non posso svegliarla ogni notte rientrando alle 3:00, gliel’ho detto.
-Mi trasferisco nella stanza della mamma per dormire, così non ti sveglio. O vuoi starci tu?-
Stava facendo un riassunto, uno schema, qualcosa per scuola. Liceo classico, come me. No, io come lei, dato che ha deciso a dieci anni quale sarebbe stata la sua scuola. Un ritratto di Hugo incollato sulla copertina del suo raccoglitore ad anelli.
-Ma non c’è nessun problema, non mi dà fastidio se mi svegli. Comunque se vuoi dormire nella stanza della mamma dormici pure…-
Poi si è fatta trovare nel letto di mamma, il mio cuscino sul lato libero. Accucciata in posa fetale verso il mio lato. Testa di cazzo, ho pensato, ad addormentarti da sola in questo letto. Avrai sicuramente pianto.
-Edward!-
Mat, dalla cucina.
Con in mano un vecchio orologio di legno dipinto mi corre incontro.
-È inutile, va cambiato il meccanismo. Basta smontarlo, vedi qui dietro?-
-No, lascia stare.-
Un altro monito di Yveline, sul tempo.
Mamma, perché adesso ti chiamo Yveline?
Un quadrante colorato. Pezzi di giornale, quadratini di colore presi da chissà quale paesaggio, pubblicità, scritta, e numeri scomposti presi da un quotidiano, da un articolo sulle diete vegetariane, da…
-Lascialo così.-
Mat annuisce, fa spallucce.
-Il sacco in cucina lo butto? Ci sono solo i pezzi dei cartoni da imballaggio.-
-No, non ancora.-


-È una sfida?- mi chiede Mon, e mi guarda con disprezzo.
La Suite. In qualsiasi albergo sia, è sempre la Suite. Con i divani che puzzano di detergente e smacchiante.
E io mi verso una bottiglietta monodose di whisky.
-Allora?-
Serge è in una delle due camere. Sento l’eco della sua voce. La sua brillante voce che parla con qualcuno di come sta, va tutto bene, si può fare, si può sempre fare tutto.
Per questo sono uscito. Il cellulare ha cominciato a vibrare, una volta, due volte, la suoneria era in modalità “riunione”, e io ero sveglio e aspettavo che squillasse. Ha squillato, un driiin da vecchio telefono a componimento manuale. Serge si è alzato, ha borbottato qualcosa, si è sporto a rispondere.
E nel salotto che precede le camera c’era Mon, sola, un sacchetto di D&G in mano, i capelli biondi raccolti disordinatamente.
-È stato lui a chiedermi di venire qui.-
Reclina il viso, quel suo viso armonioso e regolare. Sbuffa, infastidita, infastiditissima.
-Non dire cazzate. Lo so che te l’ha detto lui, altrimenti non saresti qui. Ma perché te l’ha chiesto?-
Mi alzo, il telecomando è sul televisore. Multicanale. Rock-Pop-Lounge-R&B, non ci ho mai capito molto di musica, parte di sottofondo, perfetto sottofondo.
Il secondo sorso del whisky mi riscalda le spalle.
-Ti sarai reso conto di come funzionano qui le cose… E le cose non accadono per caso.-
Ha ancora la giacca addosso. Un tre-quarti di chiara pelle di daino, la cintura slacciata. Immobile, reclina solo la testa.
-Allora dimmelo tu perché sono qui, vorrei saperlo.-
L’udito, il tatto… Manca la vista, perché non voglio guardare lei. Ma non c’è nulla da sfogliare, non c’è neanche un misero poster o un biglietto di presentazione. Carta di caramelle, qualcosa… Nulla. Solo l’etichetta che sporge dal tappeto.
-Vuoi saperlo…? Capire che stai facendo la troietta snob e ti sei già messo in concorrenza, e non sono neanche due settimane che lavori… Pensi di essere speciale?-
Sì, profondamente. Perché me ne sbatto di queste questioni. Perché tra tutte le puttane e gli accompagnatori sono quello meno bravo. Quello che non ce l’ha nel sangue. E che non sa neanche come si faccia la proietta.
-Non ho chiesto un cazzo. Se pensi che voglia prenderti il posto… Non lo vorrei questo lavoro. Non mi piace. Mi fa schifo.-
-Oh, certo…-
Lancia la giacca sul divano. Su di me. Come se io non ci fossi. Eppure sa mostrare di ignorarmi con grande precisione.
-E immagino che questo culetto d’oro sia qui perché ha puntato una pistola nel culo di Serge… Cazzo, che elevato!-
Fugge nel bagno.
Il mascara. Forse dovrà mettersi in mascara.


No, veramente, non mi piace. Essere seduto al tavolo con Mat in attesa che Moony torni. Tutto quello che era in soffitta in soffitta è tornato.
Anche i sacchi della spazzatura con dentro i residui di imballaggi, non sono riuscito a buttarli. Hanno accumulato la stessa polvere dei libri, delle tende, anzi di più, sono ancor più testimoni.
Non mi piace non saper cosa dire a Mat. Stare in silenzio mentre lui si prepara un caffè che non ha voglia di bere ma che lo tiene occupato dal mio silenzio.
Veramente, mi fa schifo.
Stare qui e pensare che la persona a cui potrei dire più cose è Serge. E Serge non me le chiede, e non voglio che lo faccia.
Sussultare, ancora, cazzo, all’idea di quel dito tra i miei coglioni. Di quel piacere sublime che del sublime non aveva la sacralità, il pudore, l’elevazione. Mi ricordo le definizioni di Yveline, definizioni che sublimavano qualsiasi cosa. Una sigaretta tenuta tra anulare e mignolo per lei era La Sigaretta Dell’Affaccendato; l’occhio che sfugge di lato mentre si riflette su una risposta era Lo Sguardo Che Rifugge La Tempestività. Sempre tutto maiuscolo. Mi mancano.
Mi dico che queste mie erezioni sono un’accettazione psicologica in mancanza di un’elevazione spirituale da dare alle cose. Sento di dovermi eccitare per accettare quel che dovrò fare stasera, e domani, e dopodomani… In attesa del giorno in cui tutti i debiti saranno estinti, in cui avrò abbastanza soldi per… Aprire un’attività commerciale? Pagare gli studi a Moony e attendere che lei cominci a lavorare? E poi cominciare a estinguere questo debito.
No, mi fa schifo, veramente.
Mat, te lo direi, ma non capiresti.




Vai al capitolo


INDICE CAPITOLI