ASHU
WOOF!


Grazie ad Ashu, per avermi parlato di come Serge sia, e per ciò possa essere visto da altri oltre a me..

Per chi volesse meglio conoscere Ashu, vi rimando al suo LiveJournal.








Serge ha le mani di un rapace. Sono ossute, scarne come artigli. Per esserlo completamente dovrebbero essere mani ingiallite di un tabagista feroce, ma Serge, per sua fortuna, è nero.
Color caffè.
Serge fissa le unghie per non guardare i tasti. I tasti di quel fottuttissimo computer al quale lavora praticamente sempre, quando non scopa.
Forse Serge ha un giro di prostituzione informatica. Potrebbe essere.
Il momento contemplativo dello strato corneo che ricopre la punta delle sue dita è finito. Preme le lettere quasi con ferocia: no, non sta scopando. Ma potrebbe interpretare il ruolo del dominatore, però non è da Serge. Serge è il capo, non il sadico capo.
Semplicemente il capo, o mamma.
Maman.
Bisogna essere deliberatamente pazzi per dare questo dolce sferico soprannome ad un uomo scheletrico.
Maman è un vocabolo che evoca le rotondità della gravidanza, le curve del corpo paffutello di un bambino, il cigolio delle ruote di un passeggino, l'odore del latte messo a bollire. Non lo assoceresti mai ad un magnaccia nero. L'uomo nero. Come non assoceresti tua madre alla droga, alla depravazione.
Poi scopri che tua madre con l'uomo nero ci scopava, in un certo qual modo. In un certo qual modo tua madre ha avuto una storia più intensa con lui di quanto ne abbia mai avuta una con te.
E qui va tutto a puttane.
No, non tutto, e nemmeno tu vai a puttane. Tu fai la puttana; strapagata, ben tenuta, riverita, rispettata, cercata, ma pur sempre puttana.
Troia. Meretrice, o meglio, gigolò e tutte le sue varianti: sono ben impresse nella tua testa, tanto che ormai c'è anche il solco sul soffitto dove hai immaginato mille volte di tracciarle con lo sguardo.
Le ristrettezze economiche non si fanno più sentire, non hai più Fame, la vera Fame, di quando sei incappato in Serge. Non l'avevi visto. Come avresti potuto? Con gli occhiali scuri di notte, tu, e lui, vestito con lo smoking (una seratina da milioni di euro, eh, Maman?) e non con uno dei suoi soliti abiti catarifrangenti.
Gli sei caduto addosso, e con poca grazia ti sei offerto. L'avevi già fatto, qualche volta, pagavano e (non troppo spesso, ma a volte) ti lanciavano qualche osso nella tua ciotola graffiata. Un piatto di pasta, un panino, una scodella di cerali con un po' di latte. Addirittura, una fetta di torta.
Serge ha forse visto delle potenzialità, delle vecchie maniere abbandonate. Ha visto un barlume di intelligenza in quel tuo sguardo da cane. Ti ha raccolto, addestrato, e poi mandato di casa in casa ad offrire i tuoi servizi, facendo servizietti e ricordandoti di usare sempre la casetta di lattice.
E sei stato bravo, mai una volta che si siano lamentati. Hai avuto persino clienti particolari, esigenti, pignoli: hai fatto loro da cane per non vedenti, eseguendo ordini e senza sbavare, a meno che non fosse richiesto.
E in tutto questo lasso di tempo hai accumulato rispetto, zone, persino una cuccia fissa.
Ma sei comunque in gabbia.
Non hai mai pensato a come superare il recinto.
Puoi far fagotto, nessuno ti ha legato con una disumana catena di ricatti, minacce, torture. Ti avrebbero rovinato il pelo e non avresti portato soldi. No, sulla carta sei libero come l'aria: puoi prendere i tuoi soldi, le tue cose e saltare al di là del recinto.
Che fare, dopo? Il problema, uno dei tanti, è che lo steccato è fatto di tante persone alle quali hai reso servizio.
Vuoi fare il pizzaiolo? Cazzo, l'altro giorno eri nella vagina di sua moglie mentre lui, impotente in senso clinico, vi fissava con sguardo lubrico.
Beh, potresti provare a fare il commesso. C'è un nuovo negozio che cerca personale. Ma, ora che ci pensi, il proprietario deve essere uno di quelli che ha partecipato all'ultima orgia, un paio di sere fa.
Il cameriere? Ti sei fatto almeno sette direttori di sala di altrettanti ristoranti; il barista? Una checca: ha voluto te e Priscille, insieme. Un po' come andare a letto con tua madre; il pasticcere? No, farebbe lui il bigné e tu dovresti farcirlo.
Certo, è vero, a Parigi non ci sono solo sette ristoranti, un bar, una pasticceria; non c'è un solo negozio di vestiti, ma sei finito a letto coi migliori e non potresti lavorare per altri.
Dovunque potresti andare, rischieresti di incontrare facce viste nel loro momento più intimo, all'apice dell'orgasmo: indovineresti i tratti dei loro corpi sotto i vestiti, sapresti dove toccarli e cosa (ma soprattutto come) sussurrargli all'orecchio oscenità per farli venire in mezzo alla stanza.
Ma tu vuoi cambiare lavoro perché sei stanco di fingere, non ne puoi più di essere una persona diversa con
ogni persona diversa. È come chiedere ad un barboncino di diventare un mastino o un dobermann appena incontra un labrador o un border collie.
Magari la prima volta si diverte anche, ci può pure provare, ma gli risulta difficile. Magari poi gli si flippa il cervello e comincia a miagolare.
Capita, se sniffi il tavolo di Serge.
Tavolo al quale sta lavorando, frenetico, con il suo giro di troie virtuali, ultima frontiera dell'erotismo a pagamento. Pagheranno con la carta di credito? Addebito telefonico? Vaglia postale?
-Serge...?-
Ticchettio nervoso dei tasti, un'aggiustatina all'accappatoio color giallo maionese impazzita. Serge tira su con il naso.
-Che c'è, Theò?-
-Mi stavo chiedendo... sai che fine hanno fatto quelli che hanno smesso?-
Il ticchettio si arresta, Theò non giurerebbe di vedere le mani da rapace tremare ma non fatica ad immaginarlo. Attribuirebbe la colpa alla droga, non di certo alla sua discreta domanda.
-Smesso di fare cosa?-
-Di lavorare. Per te.-
Serge sospira. Si alza. Serge gli si siede accanto sul divano color sabbia elegante e raffinato, dell'albergo.
(Non vorrà davvero lasciare sull'orlo dell'orgasmo quel ragazzino di Lione, vero? Che uomo crudele.)
-Vuoi lasciarci, Theò?-
-N... no, pensavo. Ti ho detto, pensavo.-
-Se non te ne vuoi andare, non ci pensare. E poi che faresti? Questo è un lavoro comodo, guadagni, ti tratto bene, non sono un negriero disumano.-
(No, ma sei un nero inumano. Sei troppo magro, accidenti.)
Serge che interpreta il padre paziente, la Maman comprensiva. Perché Theò è davvero come un cane, se gli mostri rabbia o paura attacca. Serge che si trattiene dal stringere troppo forte la mano che gli ha appoggiato sulla spalla, evita di artigliare la debole carne fasciata dalla stoffa di Dolce e Gabbana.
-Sì, volevo andarmene, Serge. È che sono stufo di non avere le mie libertà personali. Voglio essere libero di pisciare negli angoli, di avere un mio spazio, di ringhiare se serve e non se mi ordinano di farlo.-
-Hanno cambiato città. Sono spariti.-
Serge è scattato come una molla, ha usato Theò come appoggio per la sua spinta. Ha fatto un breve calcolo mentale dei soldi che perderebbe se Thèò lo lasciasse davvero, e ora controlla al PC.
Tre nuove ragazze, almeno. E magari anche un bel maschietto per pareggiare i conti.
Il cane frutta più degli altri animali, sarà l'apparenza di alta fedeltà che dà il suo sguardo vuoto.
-E che faresti poi una volta fuori? Dove andresti?-
-Io non voglio lasciare Parigi...-
-Sai dove sono le chiavi, sei libero di andartene. Ti chiedo almeno di finire i tuoi appuntamenti ma di non prenderne altri, se davvero sei intenzionato a lasciarci. A lasciarmi.-
Magari funziona. Magari interpretare Priscille, tenera e ferita, triste per l'abbandono, funziona. Se pensa ai soldi, alla fatica di recare altra gente, alla fatica di mantenere gli stessi clienti, chissà, la sua voce si incrina quel tanto che basta per fare leva nell'animo di Theò, sfiorare quella corda canina che dà la nota di Argo e di fedeltà al padrone.
-Io, voglio solo...-
Forse Serge è in astinenza. Forse Serge sta male. Non l'ha mai visto così, sembra sull'orlo delle lacrime. Forse deve chiamare un dottore.
-Tutto ok?-
-Sì... sì. La chiave della tua stanza è sul tavolino all'ingresso.-
-Maman.- esordisce Theò dopo pochi passi. -Maman, ci penso. Finisco gli appuntamenti e ci penso. Dieci giorni.-
Theò giocherella con le chiavi prima di uscire, lascia scorrere i secondi scanditi dal rumore della targhetta numero 512 come chi non se ne vuole andare. Poi esce, e non appena sbatte la porta Serge solleva lo sguardo dalla moquette.
Sta digrignando i denti.
Sorride.