DIO'S BIOS
EFFETTO NEVE


Grazie ad Ashu, perché scrivere con lei, a volte, è come porre una domanda allo specchio ed avere risposta.

Grazie a Hyoga, perché Horton è nato con lui. Horton è nato per lui. E per Kendall.
(E non vedo l'ora, mio adorato sbirro, di proseguire e far leggere la Nostra Creazione.)

Per chi volesse meglio conoscere Ashu, vi rimando al suo blog.







Horton stringe le dita sul pomello del cambio, e innesta la marcia con due scatti secchi e decisi.
Ha l'aria di essere uno che ama il sacro vecchio automatico, la sicurezza di poter spingere la propria Corvette tangibilmente. Leva del cambio sempre nella mano, scettro con cui, almeno sulla tua macchina, sei padrone, e il braccio fuori dal finestrino, la cenere erosa dalla velocità.
Guarda dritto davanti a sé, come ogni buon guidatore non guarda la strada perché la conosce, la sente vibrare sotto al culo, e non importa che la retina registri il traffico di New York e le sue vie secondarie - Horton sta guardando altrove, e la sigaretta che porta alle labbra è il contatto con la realtà.
Una serata come molte altre, tra i clacson e il brusio della città. Potrebbe essere sulla strada di casa, sereno quanto può esserlo e rilassato quanto un poliziotto può tutto sommato permettersi. Oppure, alternativa non troppo strana, potrebbe essere diretto verso l'appartamento di qualcun altro, verso un'ora di sano sesso, mentre questo qualcuno siede sul sedile di fianco.
Kevin, questo qualcuno. Lascivamente abbandonato sul sedile. È assorto nei suoi pensieri, i capelli neri troppo lunghi davanti agli occhi dello stesso colore, le labbra appena aperte in un sorriso accennato. Annoiato - o forse solo impaziente di arrivare a casa sua - mette una mano tra la cintura e il petto.
È dall’uscita del locale che sono in silenzio, da quando le portiere si sono chiuse con loro dentro.
Se questa non fosse New York tutto sarebbe più difficile. Se non ci fosse il mormorio della metropoli che riempie ogni tuo vuoto come una mamma che t'imbocca, il silenzio avrebbe già spinto uno dei due a parlare. Ma con le insegne al neon da guardare non ce n'è bisogno; con i passanti allegri e tristi, vittoriosi e vinti, e i locali e i baracchini che sparano musica che cambia ogni venti yarde - ogni tre secondi.
Horton aspira l'ultimo residuo di tabacco e preme il mozzicone nel posacenere. Vuoi? Potrebbe chiederlo, e offrire il pacchetto. La cosa più scontata e banale, il tentativo più ingenuo per avviare una conversazione.
Horton tace. Non ha bisogno di queste cose per scopare, e non gli piace fingere.
Kevin lo osserva, corrugando la fronte. Come se si ricordasse solo allora di avere un pacchetto di sigarette in tasca e come se si accorgesse solo adesso di aver voglia di fumare, prende una sigaretta e cerca a tentoni l'accendino.
“Ehy.” domanda con impazienza. “Hai d'accendere?”
Nessun cenno, nessuna parola, tanto che sembrerebbe che la domanda sia stata totalmente ignorata.
Ma intanto le dita di Horton sono scese all'accendisigari, hanno premuto, e ora lo solleva rovente senza spostare lo sguardo.
Kevin lo afferra per nulla colpito dai gesti freddi dello sbirro. Accosta l'accendisigari alla sigaretta, guarda la cartina bianca scurirsi e cominciare a bruciare. Poi ripone l'oggetto nel suo buco, sorridendo divertito all'analogia che quel semplice oggetto gli aveva offerto. Torna serio, sentendosi infantile e cretino, ma proprio non ce la fa smettere di sorridere, così lascia che le sue labbra si incurvino ancora.
Horton lo vede, lo guarda, sorride, forse divertito.
Kevin Cudrop, 23 anni.
Un'identità che poco ha a che fare con il lavoro di Horton, non fosse che Kevin si è trovato con gli amici sbagliati, che hanno fatto il nome sbagliato - il suo - e Kevin si è trovato in casa due poliziotti di troppo alla furiosa ricerca della droga, e l’hanno trovata, troppo poca per essere spaccio ma abbastanza per il possesso. Nottata insoddisfacente, nessuno dei due sbirri aveva voglia di andarsene in centrale con solo quello per le mani. Kevin li aveva sentiti parlottare in cucina, aveva udito il frigo aprirsi e il rumore inconfondibile di una bottiglia di birra stappata e poi:
“Io stasera non ne ho voglia.”
Voglia di cosa, si era chiesto il ragazzo. Voglia di scopare, si era risposto subito dopo quando l'altro l'aveva afferrato e portato in camera da letto.
Lo stesso poliziotto che ha di fianco adesso, e che si sporge per prendere un'altra sigaretta dal cruscotto.
Aveva guardato Kevin, un'occhiata breve e distratta, e gli aveva detto di girarsi, contro il muro, piegato. A novanta.
E Kevin aveva ubbidito, spaventato. Nessuno dei suoi amici gli aveva mai parlato dell'inconveniente - se a loro si era presentato - ed erano passati subito dalla perquisizione alla centrale al gabbio. Ma mai, mai, mai, gli avevano detto di essere stati piegati a squadra e trombati con violenza.
Violenza.
Un termine che Kevin ha imparato a rivalutare.
Il poliziotto che ha di fianco, adesso senza divisa, potrebbe essere un qualsiasi benestante benpensante dalla fedina pulita. Volto un po' smagrito, certo, e forse una certa mancanza d'espressività, ma neanche un cenno di quella rabbia che tecnicamente dovrebbe rendere violento uno stupro.
Horton non l'aveva picchiato (no, quello lo aveva fatto l'altro poliziotto dopo, dopo essersi bevuto le sue birre mentre il collega faceva gli straordinari con i pantaloni calati), non l'aveva offeso, non si era imposto oltre al minimo necessario per assicurarsi che stesse fermo.
E poi, semplicemente, l'aveva scopato.
Con la foga con cui ti fai una sega, con gli stessi sensi di colpa e la stessa enfasi. Meccanico movimento pelvico. E qualche gemito, sul finale, di sicuro non emesso per rendere più estetico il tutto.
Poi si era spostato, aveva sfilato il profilattico - Horton che adesso fuma una sigaretta, placido come un uomo di trent'anni che torna a casa dal lavoro per godersi il giusto riposo - ed era andato a pulirsi le mani.
Tutto questo, visto dall'interiorità di Kevin, era stato di una violenza inaudita. Senza urla né bestemmie, calci o imprecazioni. La violenza che usi nel buttare un peluche nell'armadio, senza doverti preoccupare che soffra.
Kevin ora fa le stesse cose che faceva allora. Più o meno. Fuma, beve, va in giro... No, fa esattamente le stesse cose che faceva prima che quei due arrivassero e Horton se lo scopasse. In realtà si ubriaca più spesso, ed è in un bar che ha incontrato di nuovo lo sbirro.
Scontrato, sarebbe esatto dire. Tra la ressa, una delle tante persone contro cui finisci calcolando male il tuo - scarso - spazio d'azione.
Il ragazzo si era scusato. Non si era voltato però, come normalmente faresti con uno sconosciuto. Era rimasto a squadrarlo fisso, e in fondo a quello sguardo una punta d'odio e di desiderio.
Era lo stesso, uguale e identico, uomo che lo aveva messo a novanta in un'ora di servizio pagata dal governo e poi se n'era andato con la coca che doveva essere sequestrata in quell'appartamento. Nessuna denuncia, nessun processo; solo l'arcaico, umiliante metodo punitivo.
Senza divisa, ma vestito come qualsiasi altro newyorkese contro cui puoi scontrarti per poi dimenticarlo in pochi secondi, era esattamente la stessa persona. Distaccata, gli occhi chiari di quel grigio spento che non guarda mai veramente ciò che guarda, aveva inclinato il volto per guardare Kevin senza degnarsi neanche di mostrare fastidio.
“Ehy, scusa, fai il poliziotto?”
La domanda gli era uscita così, spontanea. Complice, forse, l'alcool e un tiro di una mezz'ora prima.
“Sì.” aveva risposto l'uomo, e aveva alzato un sopracciglio mentre lo osservava meglio. Localizzava, forse, quel volto nell'archivio mentale. Aveva i capelli più lunghi, aveva notato Kevin, castano chiaro gli sfioravano orecchie e nuca. Un taglio da avvocato freelance, da giornalista, da lavori che non lasciano il tempo di guardarsi allo specchio.
“Dobbiamo aver scopato una volta.” aveva detto Kevin e gli aveva sorriso. Spontaneamente, come faceva con tutti. Non era il classico newyorkese incazzato con i suoi simili, il traffico e il mondo intero. Kevin sorrideva, strafatto o meno.
“Sì, devo averti scopato una volta...” aveva risposto, sottolineato, lo sbirro - in borghese o meno, emanava la stessa strafottente autorità - e aveva aumentato le distanze mettendosi una mano in tasca. Sorridendo, però. Un sorriso, falso, costruito, ma fatto con un certo impegno. “Vuoi il bis?”
Kevin aveva annuito. Sì, era stato scopato una volta. E, sì, voleva il bis. “Parcheggiato lontano da qui?”
“Esci.”
L'ordine, perché anche se detto quasi di malavoglia era un ordine, era stato pronunciato con lo stesso stanco tono tipico del poliziotto. Atono, privo di inflessioni, accompagnato solo da un'occhiata rivolta all'uscita del locale.
Il ragazzo aveva posato il bicchiere sul bancone, poi si era spinto attraverso la calca fino sul marciapiede. La musica del locale continuava a ronzargli nelle orecchie, confusa con il rumore delle auto che correvano in strada. L'odore dei gas di scarico l'aveva colpito come un pugno in faccia. Barcollava - peggio del solito - si era detto, cadendo storto su un piede.
L'uomo gli era passato di fianco, alla giusta portata per aiutarlo, ma non l'aveva toccato.
Era andato alla portiera della Corvette, l'aveva aperta e si era messo alla guida.

L'auto rallenta, senza scatti, pronta a infilarsi nel primo posto libero.
“Non lasciarmi nulla in macchina.” dice Horton, e la prima cosa che fa dopo aver spento il motore è accendersi una sigaretta con quella che gli sta arroventando le labbra.
Il condominio è grande abbastanza da meritarsi il nome di grattacielo, eppure sembra piccolo e tozzo, soffocato da altre vette che lo superano in tutti sensi. Un po' grigio, vecchio, fatto di cemento non pitturato, con qualche venatura di ruggine e i panni stesi alle finestre. Entrano e Kevin si regge in piedi fino all'ascensore, poi crolla, scivolando contro la parete coperta di scritte. Graffiti anonimi di sconosciuti che volevano lasciare un segno, come le antiche pitture rupestri della preistoria.
“Che piano?” domanda Horton, le dita già protese verso la pulsantiera. Guarda le proprie unghie e non guarda niente, attende una risposta da Kevin - che se non sta male di sicuro non è nella sua forma migliore, e una mano a sorreggerlo non gli farebbe schifo - con flemma.
“Terzo.” risponde il ragazzo tirando su col naso. Si passa una mano fra i capelli neri - deve decidersi a tagliarli, tra un po' lo accecheranno - e squadra Horton dal basso. Come sempre, anche se fosse su un gradino alto venti metri, Kevin si sentirebbe più in basso del poliziotto.
Dev'essere una specie di marchiatura mentale. Conoscere una persona guardando come ti sbatte, e a che ritmo, a seconda di quanto il tuo viso si avvicina e si allontana dal muro. O forse è una caratteristica dei poliziotti, e basta, mettere soggezione a priori.
L'ascensore arriva al piano, le porte scattano - quella destra con uno scarto di qualche pollice, come sempre - e Horton esce sul pianerottolo, le mani nelle tasche dei jeans.
“Porta...?”
“Quella a sinistra. Dammi una mano.” Se ne frega se Horton non gliela darà, è già pronto a questo. Allunga una mano, con una gamba impedisce alla porte di chiudersi. E tira su con il naso.
“Non ti ho portato fin qui per vederti crollare.” riceve in risposta, ma la mano arriva. Lo prende per la spalla, stretta ma non volutamente sgradevole quanto potrebbe essere, e lo solleva di un po' del proprio peso per il breve tragitto. E poi sorregge ancora.
“No, esattamente sei venuto fin qui per scoparmi...” Dalla tasca dei jeans emerge un mazzo di chiavi. Trova quella giusta, grande e lunga, e la infila nella toppa. Ridacchia ancora per il doppio senso che gli salta in mente, mentre la serratura scatta tre volte e apre la porta.
Kevin osserva il corridoio nell'oscurità. Gli sembra di vedere i quadri alle pareti (tracce dei suoi genitori) e lo sgabuzzino aperto il fondo al corridoio. Ma è solo l'abitudine e la sua memoria che gli fanno vedere queste cose. A terra - Horton ha chiuso la porta e l'ha mollato di colpo sul pavimento freddo - si volta verso destra, verso il soggiorno. La gamba dello sbirro gli sbarra la vista, così si volta verso la cucina. “Birra.” dice. “Vuoi della birra?” Si rialza a fatica, barcolla ed infine si appoggia a Horton, trovando una posizione stabile.
“Sì, dopo sì.” risponde il poliziotto, distrattamente, mentre le dita cercano un interruttore.
Il corridoio, il mondo, s'illumina, e i raggi sono così penetranti da scavare oltre alle palpebre di Kevin. Un attimo di sbilanciamento. Ma Horton lo sta già portando altrove.
La camera è grande, spaziosa, anche se occupata in parte da un ingombrante armadio a più ante che arriva quasi fino al soffitto. Il letto esattamente di fronte è fatto con precisione stonante rispetto al resto della stanza. I vestiti sono sparsi sul pavimento, un paio di pantaloni sono rivoltati al posto dello scendiletto, ch'è finito, chissà come, sopra al termosifone.
Non una parola, né gentilezze né frasi despote da copione. Tutto rimarrà come è adesso: due uomini in una stanza, odore di sesso che tappa le narici e penuria d’ossigeno.
Non è una stanza accogliente, quella di Kevin. Lo è per lui, a volte, proprio perché lì ci sono tutti gli odori della sua vita, dal tabacco ai vestiti usati al sonno rimasto sul cuscino.
Horton è in piedi, la mano sempre nella stessa tasca.
La vista di Kevin è ancora troppo sfocata - il mondo gira due volte, una destra e una a sinistra, come un pendolo che si stia stabilizzando - ma ci sono gesti riconoscibili da semplici frazioni.
Una mano che prende dalla tasca della giacca un quadratino dal colore metallico, poi tra i denti, e il gesto - semplice, senza ghirigori - di abbassarsi la zip mentre ci si avvicina al letto. Il destino lascia avvisaglie universali di sé, anche in una scopata. Soprattutto in una scopata.
“Certo che parli poco e fai molto eh?”
Horton non è cambiato da quella volta. Per quel poco che lo conosce. A Kevin basta conoscere questo di lui. Dopotutto, è lui che voleva finirci a letto un'altra volta. Il ragazzo si appoggia al mobile, ma sbaglia la mira. La mano scivola inevitabilmente, e finisce, ancora sul pavimento.
Viene risollevato, Horton seduto sul letto - è già lì? Quanto tempo è passato? Fotogrammi vengono rubati e quel che rimane nelle sue percezioni è un sommario riassunto di quel che sta accadendo - e ripiomba nell'odore del proprio sonno, la fronte premuta sul cuscino morbido di gommapiuma.
Rimane il contatto, la mano premuta al centro della schiena, mentre avviene il silenzio di un preservativo infilato.
Kevin tira ancora una volta su con il naso. Con una mano slaccia la propria cintura e cala la cerniera. “Aiutami a togliere la maglietta. Ho caldo.”
“Sei strafatto.” dice, constata Horton, non lasciandosene condizionare. Ma l'ha detto, ha parlato - e non aveva alcun bisogno di farlo - e questo gli fa assottigliare gli occhi e mordere le labbra.
Prende la maglietta per i lembi, strattona - gentile sì, ma muoviti.
“Avevi qualche dubbio? Ehy, cristo, sai che non ricordo il tuo nome? Non che ce ne sia bisogno.”
“Non ce n'è alcun bisogno.” arriva, ma è solo un sussurro, così veloce e basso che potrebbe essere la stessa eco.
La maglietta finisce tra le altre sul pavimento, vuota e ancora tiepida, esattamente come si sente Kevin. Tiepido, sull'orlo del gelo, con un'erezione di plastica lubrificata puntata tra le natiche.
“Piacere di conoscerti sbirro. Kevin, anche se non te ne frega un cazzo.” Sfrega la fronte sul cuscino e chiude gli occhi, come se dovesse dormire. Dormire, però, è l'ultima cosa che vuole fare.
“Piacere, Kevin.” risponde la voce alle sue spalle. Più bassa ma ancora integra, come integro è ancora il culo del ragazzo. Qualche secondo di silenzio - una riflessione. “Non stiamo parlando di me e di te, ma di sesso.”
È lì che Horton concentra le proprie energie, due natiche sode da gioventù passata in corsa tra una droga e l'altra. Non è sua abitudine fare certe cose al di fuori dell'orario di servizio, l'abuso di giovani sospettati è segnato con inchiostro simpatico assieme alla lista di mansioni operative.
Ma se è qui significa che stasera ne aveva proprio bisogno.
Di parlare no, però.
Si spinge dentro al ragazzo, una mano sul cazzo e l'altra su lenzuola non meno polverose di quelle in cui dorme.
Il dolore sveglia Kevin. All'istante. Gli torna in mente il dolore provato la prima volta. Un dolore che non l'ha mai fatto soffrire. Anzi, l'opposto. Le ferite, la brutalità, qualcosa di abbastanza vero da farlo sentire vivo e reale, non sono solo il frutto di un'allucinazione durante un trip o un attore intrappolato nella parte assegnatagli dalla società. Per questo vive così, per scappare. Per questo cerca il sesso occasionale. Per ritrovare ciò da cui stava scappando.
Il pensiero troppo complesso gli fa girare la testa ed emette un verso strozzato. A metà tra il fastidio e il dolore.
Lo sente mentre gli esce dalla bocca, lo sente rimbalzare e arrivargli ai timpani, e sente, in qualche modo, che la persona che ha dietro di sé - Horton, lo sbirro, quello che già conosce e da cui doveva aspettarsi tutto questo - rimarrà sordo a questo suono come a tutti gli altri.
I poliziotti fanno tacere. I poliziotti l'hanno zittito facendo esattamente questo - un cazzo su per la colonna vertebrale, e non vedere chi te lo sta mettendo. Sente le spinte, le sente nette e precise come passi di un metronomo che compie un passo per rintocco.
Poche cose nella sua vita hanno avuto un ritmo così scandito. La campanella del suo liceo o il ritmo della sua canzone preferita. E come ne sa a memoria le parole sa dire cosa accadrà di lì a poco. Horton agiterà i fianchi ancora, entrerà sempre di più, e Kevin prenderà il proprio cazzo in mano, perché la cosa lo fa godere. E al momento culminante per lo sbirro lui sarà prossimo all'orgasmo. Quando Horton uscirà - da lui e dalla sua vita - lui sborrerà sul lenzuolo.
Le spinte si fanno sempre più vicine, nervose e secche, e così il fiato che esce dalla gola di Horton.
Acqua, incredibile necessità di acqua.
E più aumenta più le spinte aumentano, fino a che - Kevin può giurarci - non se lo sente nell'intestino.
Ed ecco, è lì. La sua mano si afferra, come in un bagno - della scuola o di casa, del negozio dove lavora o nel bagno di un fast food - con la totale mancanza di pudore con la quale ci si fa una sega tra amici.
“... Cazzo...”
È la voce di Horton dietro di lui, dentro di lui.
Contrazione, spinta, contrazione.
Sudore freddo sulle natiche di Kevin, e un respiro caldo che gli sfiora il collo.
Kevin non se ne cura. La sua mano ha appena cominciato a muoversi avanti e indietro, aritmicamente rispetto alla spinte di Horton. Più i due movimenti si fanno frenetici più lo scarto di tempo tra i due ritmi si assottiglia e diventa una cosa sola, mentre l'erezione gli pulsa dentro svuotandosi.
Il respiro di Horton sulla sua nuca è freddo, ora.
È fredda la carne del suo inguine, gli addominali ancora tesi che si premono sopra le sue natiche. E si tolgono, una mano a tenere il preservativo, mentre Horton biascica qualcosa tra sé e sé.
Una punta, acuta di dolore, tremendo dolore. Realtà.
“Detto qualcosa?” Verbo, superfluo come l'affetto in una frase del genere. “Da quella parte c'è il bagno.”
Kevin si gira. Dolore. Ancora un po' di realtà mentre torna alla casa-dimensione dei suoi pensieri.
Horton lo sta guardando. La luce biancastra della lampadina, o forse la stanchezza, lo invecchia. Le fossette nelle guance sono scavate, le occhiaie sono pesanti segni neri sotto a una fronte tartassata. Le sopracciglia chiare si alzano, si abbassano, si alzano e così rimangono.
Ha ancora il preservativo in mano, chiuso con un nodo come un palloncino nato sgonfio. Forse sta per dire qualcosa. Forse.
Si allaccia i pantaloni e va verso quello che, , dev'essere il bagno, in silenzio.
“La birra la vuoi? Se vedo un piede fuori dalla porta è no, se vedo una mano è sì, sbirro.”
Si alza, altro dolore, ancora meno realtà però. Come il male passa, così la realtà si fonde con la sua dimensione da strafatto. E l'alcool è a portata di mano. O quasi.
Rimane in attesa per secondi, forse minuti, di sottofondo il familiare rumore di acqua contro ceramica, rubinetto aperto e poi chiuso. Può sentire anche il fruscio dell'asciugamano raccolto, il panno sulle mani poi di nuovo posato - dove? Dove lo aveva lasciato? - può immaginarsi tutto, perfettamente.
“Ti servono dei soldi?”
Horton è sulla porta, arrivato nella frazione di secondo in cui il suo sguardo era altrove.
“No, ma se vuoi fare una donazione agli sfondati anonimi non ti faccio causa.”
Il sarcasmo di Kevin stona con il momento, con la faccia di Horton. Stona con Horton e basta. Stride con tutto quello che è accaduto.
“Come vuoi.”
Horton si toglie dalla visuale, passi che vanno in cucina.
La sua risposta, piatta, è stata malsanamente seria.
Avrebbe potuto ridere con la puttanella sfondata capace di autoironia. Ce ne sono poche (maledetto vizio di prendersi sul serio). Ridere e accendersi una sigaretta per onorare la battuta.
Lascia cinquanta dollari sul tavolo in cucina, e vi vede cocaina. O MDMA o l'ultima merda più o meno raffinata in voga sul mercato.
Cinquanta dollari.
Solleva la banconota intatta e la guarda, sorridendo.
Non ha mai pagato così tanto una puttana.
Non paga una puttana da anni, per dirla tutta, ma questo il ragazzo non lo può sapere, e nessuno saprà del ragazzo.
“Ehy, grazie. Sono per me? Mi sarei aspettato dei fiori domani, ma forse non è il caso.”
Kevin gira ancor stramaledettamente nudo per casa, e dal frigo prende una birra. L’oblio è subito, tolto il cappuccio di metallo e arrotolata una banconota.
Due settimane.
Un'informazione che Kevin non ha e non può avere: fra due settimane ci sarà sul mercato una partita speciale, altro che Bolivia, un'idea di qualche testa di cazzo del distretto.
Vogliono la roba? Diamogliela. Con una piccola correzione, però.
Il peggior taglio di cocaina che puoi trovare sul mercato, letale come uno scorpione che ti punge di traverso.
Horton guarda la riga risucchiata dal tavolo alla narice, la scia sbarrare gli occhi del ragazzo e il riverbero farlo sorridere.
Fra due settimane potrebbe essere morto e sepolto.
“Quella roba è merda.” pensa Horton, e lo ha detto.
“Voglia di paternale dopo la scopata? Di solito si fuma.” Beve un sorso della birra, amara, e caccia indietro il sapore della cocaina.
“Sì, una sigaretta.”
Il poliziotto la prende dal pacchetto, se la infila tra le labbra senza neanche pensarci. Alza l'accendino, la fiamma accesa, e si rende conto di non averne voglia.
Pessimo segno. Il destino va contrastato: l'accende.
Kevin lo squadra. Aspira. Il tabacco bruciato gli entra nelle narici. Sublime come il profumo di una torta, lo seduce e lo spinge a chiedere una sigaretta al poliziotto. Ultima sigaretta del condannato; lo pensa Horton mentre la porge al ragazzo.
Un po' melodrammatico, forse, ma non riesce a togliersi dalla testa una frase:
La responsabilità delle idee.
Di partorirle, di svezzarle, di proporle sul mercato.
”Vogliono la roba? Diamogliela. Con una piccola correzione, però.”
Al distretto avevano riso, una risata nervosa e bassa in elogio alla geniale trovata. Bell'idea, Horton, risolutiva, bella perché espressa con nonchalance. Quanti dei presenti avevano tremato all'idea che il proprio figlio potesse far uso di cocaina di nascosto? O un conoscente?
O la puttana con cui sei stato due giorni prima, con cui andrai, dalla cui casa stai uscendo?
Horton guarda la brace erodere la punta della sigaretta, Kevin tirare e la prima nuvola di fumo disperdersi nella stanza.
La responsabilità delle idee.
Horton è solo un poliziotto, una delle mille teste di cazzo che gravitano a New York. Non ha diritto a nessuna responsabilità, e va verso l'uscita.
Chiude la porta e ci sono l'ascensore e le scale. Tre piani di scalini luridi, pareti incrostate e porte.
Ci sono passi arrancanti che vengono da sotto, la camminata di un ubriaco e delle sue ginocchia che cozzano contro gli scalini, rantoli rabbiosi intramezzati da una canzone di note stonate.
Un rantolo. Un colpo.
Un rantolo. Un colpo.
Un rantolo e Horton è nell'ascensore, e tutto il resto non lo riguarda più.




Per chi avesse apprezzato: consiglio caldamente di leggere DREAMING ABOUT REALITY, di Ashu, stralcio in prosecuzione a Effetto Neve.