DIO'S BIOS & HYOGA
DOG EAT DOG

O9




Reynolds aprì gli occhi, riemergendo da un torpore viscoso e nauseante come la melassa.
Si guardò intorno, la luce lattiginosa dell’alba, filtrata e resa opaca dalla nebbia di palude, stava pian piano facendosi strada all’interno della roulotte.
Cercò di localizzare Norton e lo vide subito dove si aspettava che fosse: rannicchiato sull’altro letto. Gli stava voltando la schiena.
Di spalle, cristo santo. Neppure un novellino di merda avrebbe dormito così.
D’istinto cercò ancora una volta un punto debole nelle manette che lo avvincevano. Sarebbe stato troppo bello riuscire a neutralizzarlo nel sonno, immobilizzarlo e poi riportarlo al distretto.
Sospirò di nuovo. Le manette erano solide, accidenti a loro. E fissate ad una sbarra di ferro altrettanto solida.
Si costrinse ancora una volta ad ignorare il suo corpo ululante di sofferenza, il malessere che si stava risvegliando con lui.
Era rimasto immobile talmente a lungo che non sentiva più le braccia. Provò a muovere le dita, che risposero faticosamente, spedendogli fitte di dolore fino alle spalle.
Già, le spalle. Un bel problema anche quelle.
E le costole.
E la fottuta ferita sullo zigomo che non ne voleva saperne di chiudersi.
Inoltre, cosa che si impara alle prime lezioni del corso di sopravvivenza, si muore prima di sete che di fame.
In effetti, lo stomaco si rassegna dopo le prime ventiquattro ore, la fame non si sente più.
Ma senza bere non si va avanti più di tre giorni. Due, con questo clima caldo-umido di merda che ti fa sudare anche quando stai fermo.
Reynolds valutò che uno e mezzo se l’era già giocato.
Tenere duro, sempre. Non cedere, non lasciarsi andare a pensieri disfattisti. Si ripeté il training appreso nei berretti verdi.
“La resa non è nel nostro credo.”
Un mantra come un altro.
Dentro una delle ante, la lancetta dei minuti di un orologio da polso fece tre volte il giro del quadrante.
E, mentre Reynolds ancora pensava, e inframmezzava i pensieri con frasi che li disciplinassero, Sonny si svegliò, stiracchiando le braccia e emettendo un lungo mugolio scomposto.
Si girò supino, girando il viso verso Reynolds e guardandolo per qualche secondo.
Ok, lo sbirro è ancora lì.
L’altro rimase immobile. Non girò neppure gli occhi verso Norton, accontentandosi di tenere d’occhio la sua sagoma ai margini del campo visivo.
Il ragazzo si alzò, stiracchiando definitivamente tutti gli altri, e senza dire una parola aprì una delle ante in cui aveva messo i vestiti.
Prese il dovuto ricambio, l’automatica e le sigarette dal tavolo, ed uscì.
Il tabacco del risveglio in gola (e il fottuto ragnetto era ormai parte delle sue tonsille, ottuso come un accendino scarico), si diresse verso i lavatoi.
Non aveva né la convinzione né qualcuno davanti a cui mostrare il proprio orgoglio, quindi rabbrividì mentre il getto gelido gli faceva dolere la carne.
Doveva abituarsi da subito, o, si conosceva bene, si sarebbe lasciato andare dopo tre giorni.
Persistette sotto l’acqua strofinandosi la pelle finché non sentì una pellicola calda sotto l’epidermide.
Doveva tornare indietro, e nella (breve) lista di cose da fare c’erano quelle che riguardavano lo sbirro.
Slegarlo, fargli fare i suoi bisogni come a un cane, e farlo mangiare.
Gli venne in mente che avrebbe potuto sparargli nel sonno, senza quegli occhi da nazi puntati addosso e tutto il tempo di trovare il coraggio. Magari subito dopo una botta di coca.
La ricacciò, subito.
Come ricacciò l’idea di drogare lo sbirro per intontirlo.
Idee che funzionavano, ma solo se avesse avuto l’intenzione di vivere il resto dei suoi giorni (pochi o tanti che fossero, libero o in gabbio che fosse) con una vergogna al posto del ragnetto che gli stava segando la gola.
Si passò il rasoio sulla barba pungente rimanendo nella vasca.
Abituarsi a piccole dosi di fermezza, o qualcosa del genere.
Perché avrebbe dovuto sparare allo sbirro.
O a breve, o quando la situazione gli sarebbe arrivata sulle spalle.
O magari all’ennesimo insulto razziale.
Non importava come. Vezzi estetici che avrebbe riservato ad altre occasioni.
Si rivestì, e prese dai jeans la coca.
Poca, per mantenere autocontrollo e vedere le cose con l’entusiasmante ottimismo della frenesia.
Se vai a ottanta miglia all’ora inseguendo il sole, il buio non sarà che un ricordo alle tue spalle.
A quale velocità avrebbe dovuto andare per non vedere mai la notte?
La domanda lo percorse, più gelida del getto d’acqua e fece come doveva fare.
La ricacciò.
E tornò alla roulotte.
Quando entrò, lo sbirro era dove doveva essere.
E stava facendo quello che probabilmente avrebbe fatto fino alla fine.
Lo fissava.
Sonny appoggiò i vestiti sporchi sul proprio letto, lanciandoli e, la pistola in mano puntata verso il volto di Reynolds, scandì, netto e preciso:
-Girati.-
Reynolds si voltò lentamente, come al solito senza dire una parola.
Non aveva nessun senso perdere tempo in schermaglie dall’esito scontato. Una pistola in mano è un argomento in grado di annullare tutti gli altri.
Sonny gli fu sopra, il ginocchio tra le scapole, l’automatica sulla nuca, e senza dire una parola aprì una delle due manette.
Vide le lacerazioni, e gli ricordarono che lo sbirro era ferito.
E che, se non l’aveva curato, era perché era così dannatamente scontato che non dovesse più essere un suo problema che aveva rimosso quell’urgenza.
Lo ammanettò di nuovo, libero dal letto, e balzò in piedi, i soliti due metri di distanza, per poi arretrare fino all’angolo della stanza tenendolo sotto tiro.
-In piedi.-
Reynolds si alzò lentamente in piedi. Nonostante il suo ferreo autocontrollo, gli sfuggì un soffocato gemito di dolore mentre cercava di raddrizzarsi.
Strinse i denti mentre la circolazione si riattivava nelle braccia intorpidite.
-Fuori.- gli giunse all’orecchio, con la fredda lucidità delle parole dettate dalla cocaina.
L’altro uscì dopo avergli lanciato un’occhiata torva. Pupille puntiformi, lieve tremito. Fottuto drogato.
L’aria all’esterno era quasi piacevole. Nebbiosa, greve dell’odore di vegetali marcescenti e limo, ma sempre meglio del tanfo pesante e animale che regnava in quella fatiscente scatola per sardine. Sbatté gli occhi alla luce, che si stava facendo sempre più intensa.
-Cammina.- lo spronò Sonny rimanendo dietro di lui, senza indicare nessuna direzione precisa.
Lex si mosse lentamente. Si chiese se si trattasse del secondo tentativo. Magari il negretto aveva finalmente trovato le palle per ammazzarlo.
Cinquanta metri dopo, ancora terra e quasi nessun fusto, Sonny gli ordinò di fermarsi.
-Fai i tuoi comodi.-
Mi porta a pisciare come se fossi un cane, pensò Reynolds.
Poi fece come il cane.
Mentre lo sbirro se lo teneva in mano dandogli la schiena, Sonny fece roteare la pistola sulla sua sagoma, come se fosse un giocattolo di gomma.
Beh, nella sua testa aveva più o meno la stessa credibilità.
Reynolds si ricompose e si voltò verso di lui, gli occhi implacabilmente fissi nei suoi.
Si passò la mano sullo zigomo, dove un taglio lungo ed irregolare non ne voleva sapere di chiudersi. Probabilmente sarebbero stati necessari un paio di punti.
Sonny la guardò per qualche secondo, soppesando il da farsi.
-Adesso torniamo dentro.- disse, e inclinò il capo verso la roulotte.
Reynolds si mosse in silenzio.
-Adesso ti spiego come funziona.- disse il ragazzo quando furono davanti all’entrata, e formulò le frasi mentre formulava il pensiero. -Tu entri, ti siedi sulla sedia di fianco al tavolo, io mi siedo e tu non fai cazzate. Regolare?-
Il poliziotto non gli rispose neppure. Non fare cazzate? Abbassa la guardia per un secondo e vedi cosa ti combino, figlio di puttana.
-Regolare?- ripeté Sonny senza muovere la pistola, guardandolo negli occhi.
Quel figlio di puttana era più tenace di quanto si era aspettato.
-Regolare?- ribatté lo sbirro. -Qui non c’è un cazzo di regolare, bello.-
-Allora non peggioriamo le cose, eh? Puoi mangiare, bere e disinfettarti quella roba stando seduto al tavolo, oppure puoi farti imboccare come un deficiente. Quale preferisci?-
Reynolds ringhiò come un lupo in trappola. -Fa quello che ti pare,- sibilò. -tanto sei tu che hai la pistola in mano.-
-Ma questo non rende te una bestia. Ma questo voi sbirri non lo capite, vero?- ribatté Sonny stringendo i denti. Ma no, vaffanculo, inutile incazzarsi. -Vuoi che ti tratto come i tuoi colleghi trattano i delinquenti o preferisci mangiare con le tue mani?-
-E ti sei mai chiesto perché lo fanno? Forse perché i delinquenti trattano loro peggio.-
E nel dire questo rievocò le notti di pattuglia nel ghetto. Il collega trovato morto, riconosciuto dal distintivo che aveva in tasca, troppo sfigurato dai calci di un branco di teppisti fatti di crack. E tante altre amenità. Per una manciata di dollari alla fine del mese e il discutibile privilegio di sentirsi chiamare sbirro di merda.
Ma Sonny era dall’altra parte della barricata.
E non avrebbe potuto capire.
O forse sì, invertendo i ruoli, un teppista e un branco di sbirri.
-Non dire stronzate, Reynolds, non sono io quello che ha da scontare. Non ho una cazzo di voglia di trattarti come un cane, ma se lo preferisci smetterò di tartassarmi i coglioni con il problema.-
-Non sei tu quello che ha da scontare?- ripeté Reynolds incredulo. -Cristo, voi delinquenti siete incredibili. Non è mai colpa vostra, siete le povere vittime della società. Te lo dico io cos’hai da scontare, bello: spaccio e detenzione di stupefacenti, lesioni personali gravi, sequestro di persona e tentato omicidio. Ti basta?-
-Hai sparato a un mio amico!- sbraitò Sonny, ma l’urlo uscì monocorde. -E questo dopo che io sono finito in ospedale con il culo rotto.-
Rialzò la canna, che aveva ceduto per qualche pollice.
In mezzo a una palude, nella merda fino al collo, non poteva permettersi di abbassare la guardia.
Non ancora, doveva reggere ancora e ancora, e dimenticarsi cosa significasse vivere tranquilli.
-Girati.- concluse, smascellando per la tensione.
Reynolds lo fissò negli occhi. –Il tuo amico stava per spaccarmi la testa con una mazza da baseball assieme a due suoi amici armati di spranga. Ma questo è un particolare del tutto trascurabile, vero?-
-Girati!- urlò Sonny, travalicando la cocaina, e l’indice tremò sul grilletto.
-Avanti, spara, negro del cazzo strafatto di cocaina. Spara! Ne ho piene le palle dei tuoi tentennamenti da fighetta!-
L’indice tremò fino a scuotere il grilletto.
Poco allo sparo.
Reynolds guardò la canna, fissa sui suoi occhi.
Ma venne meno fulmineamente, e il rumore assordante arrivò materico sulla sua guancia.
Esattamente sulla ferita, che sentì strapparsi ulteriormente mentre la testa si girava accusando il pugno.
Qualche secondo di annebbiamento, il sangue debole e la gola arsa, e poi arrivò il colpo alla nuca, duro e freddo del calcio della pistola.
Esattamente sul mal di testa che gli era appena sparito.
Gli parve di vedere un mozzicone, nel terriccio, prima che la sua testa ci sbattesse contro.

Reynolds riprese i sensi faticosamente. Diventava sempre più difficile, cominciava ad essere in riserva.
Dapprima cercò di ricostruire l’accaduto, i suoi ricordi si fermavano all’ennesima volta che aveva urlato al negro di sparargli.
Poi c’era stata una botta - sulle prime aveva pensato che fosse finalmente arrivato lo sparo in faccia - poi buio.
I suoi canali semicircolari gli stavano segnalando che non era sdraiato, poi si rese conto di avere le spalle appoggiate ad una parete. Provò a muovere le mani. Legate. Negro del cazzo.
Una fitta atroce al viso lo fece quasi sobbalzare.
-… Sta buono ancora un po’.-
Sentì dire dalla voce concentrata del ragazzo.
Aprì gli occhi soffocando un gemito.
-Che stai facendo?-
Sonny si stava mordendo un labbro, gli occhi socchiusi fissi sul suo zigomo.
Reynolds vide, agli angoli del suo campo visivo, la sua mano scura. E freddo, sulla pelle.
Disinfettante.
-Evito alla tua faccia di diventare una frittata, sbirro.-
Sonny buttò il fazzoletto che aveva in mano, sbuffando, sul mobile.
Ne prese un altro, sempre dal mobile, e lo avvicinò al viso.
-Chiudimi quest’occhio.- disse, indicando quello sopra la ferita.
Reynolds fece quello che il ragazzo gli aveva chiesto.
-E da quando in qua ti senti tanto crocerossina?-
-Da quando ho a che fare con delle bestie.- rispose, preparato, il ragazzo, e premuto il fazzoletto sull’occhio spruzzò il disinfettante direttamente sulla ferita.
-Questa bestia è l’unica che ti ha trattato con correttezza, Norton. Mi dispiace per te se gli sbirri non sono tutti degli stronzi e dei bastardi.-
Il fazzoletto scese a fermare il liquido sul mento, poi la mano si ritrasse.
-E difatti ti sto disinfettando questa ferita con questo.- disse Sonny, e gli fece vedere la confezione di disinfettante mignon. -E non sputandoti in faccia.-
-Sputa in faccia a quella troia di tua sorella, stronzo.-
Diretto, sugli addominali, accusò le nocche di Sonny.
Reynolds emise un gemito soffocato. Subito dopo la risposta aveva teso tutti i muscoli, addominali compresi, immaginando che l’altro non l’avrebbe presa bene.
Il pugno gli fece meno male di quanto avrebbe potuto, ma comunque non fu una carezza.
-Dove hai altra merda come quella che hai in viso?- chiese Sonny, monocorde.
Colpire lo sbirro stava diventando routine, inutile incazzarsi ogni volta.
Anzi, qualcosa nella sua mente gli disse che per educare un uomo o un animale, non dev’esserci rabbia nel gesto.
L’altro rimase in silenzio, fissandolo gelido. Poi, dopo alcuni secondi, rispose: -Perché non ci guardi tu stesso? Visto che ti senti tanto amico degli animali.-
Sonny sollevò un sopracciglio mentre accennava un sorriso stupito. -Stai scherzando, sbirro? Cristo Dio…- sussurrò scuotendo la testa. -Dimmi dove stanno e basta.-
-Sei assurdo. Tutto qui è assurdo. Mi hai portato in questa merda di posto per ammazzarmi, però non hai le palle, o hai deciso di divertirti, o chissà cosa cazzo ti è venuto in mente. E adesso, dopo avermi tenuto due giorni senza mangiare e senza bere mi tiri una botta in faccia con la pistola, mi leghi al letto e poi mi disinfetti, dandomi però nel contempo dell’animale. Io dico che sei fuori di testa. Ammazzami o lasciami andare, il gioco sta diventando stancante.-
-Sta zitto.- sibilò Sonny appena l’altro ebbe finito, neanche il tempo di un respiro. E tu non dargli corda, Sonny, pensa quando sei da solo. -Dove cazzo sono queste ferite?-
-Sul torace, a destra. Dove il tuo amichetto mi ha preso a calci. Divertiti a fare la crocerossina anche con quelle.-
Sonny alzò la maglietta scuotendo la testa per scrollarsi di dosso in fretta quelle frasi.
L’addome dello sbirro era così contratto che si potevano contare i dentati - probabilmente il figlio di puttana si aspettava un altro colpo - e sulla seconda costola la carne si era gonfiata in corrispondenza di un’ecchimosi.
Sonny spruzzò e frenò il disinfettante anche questa volta prima che finisse sull’orlo dei jeans, poi strofinò con poca gentilezza l’epidermide scoperta.
Reynolds strinse i denti quando il disinfettante gli bruciò la carne viva, ma non emise neppure un gemito.
La maglietta ricadde sull’addome, e Sonny si alzò per buttare i fazzoletti.
Tornò al letto con il collo della bottiglia di birra tra le mani. Calda, un po’ sgasata, ma dubitava che lo sbirro si sarebbe lamentato. Gliela mise a davanti alla faccia.
-Testa indietro.- pronunciò, semplicemente.
-Oh, l’abbeverata.- ringhiò l’altro sarcastico.
-L’abbeveratoio non ce l’ho. Vuoi bere sì o no?-
Reynolds esitò alcuni secondi, fissandolo dritto negli occhi.
Vi trovò stanchezza, e qualcosa di indecifrabile che lampeggiava in profondità. Troppo sopito per distinguerne le forme.
Stanchezza. “Mai come la mia.”, pensò il poliziotto. Ma cristo d’un dio, avrebbe mantenuto la dignità fino alla fine.
Voltò la testa da una parte, serrando le labbra.
I suoi occhi divennero cupi.
Sonny sospirò sonoramente.
Ipotesi uno, prendere lo sbirro sul vivo e convincerlo con tesi azzardate ma molta verve.
Ipotesi due:
-Cristo, sbirro… Devi solo mandare giù.-
-Allora liberami e fammi bere come una persona. O rassegnati a guardarmi morire di sete. Che fai, ti fai venire i sensi di colpa adesso?-
-Un passettino alla volta, con calma…!- ribatté l’altro mettendo la mano libera in avanti. Lo sbirro voleva sentirsi libero? E allora facciamo sentire vicino dall’essere libero. -Sai come funziona, no? Tu fai un passettino, io faccio un passettino… E per come stiamo messi ora mi sono rotto i coglioni di trattarti come un bambino, quindi fai il fottuto passettino!-
-Vaffanculo.-
-Vaffanculo…- ripeté Sonny. A sé stesso, all’aria, alla palude… A qualcosa. Magari qualcosa gli avrebbe dato retta, anziché farsi i cazzi propri e andare nella merda più totale.
Appoggiò la bottiglia per terra, si sedette sul proprio letto e pensò.
Poteva liberare una mano allo sbirro? A livello tecnico non cambiava quasi un cazzo… Nessun oggetto contundente, la distanza di sicurezza… Finché fosse rimasto lì a controllarlo, a livello tecnico, non sarebbe cambiato molto.
Poi pensò al livello non tecnico, quello che raggruppa tutte le sfumature come non pulire i cessi delle celle, non far andare un trattenuto al cesso da solo e, non in ultimo, se gli hai messo le manette non gliele togliere per poi rimettergliele, che invece facevano parte del piccolo codice subliminale che dettava cosa fare e cosa non fare se tu sei il secondino e l’altra persona è il prigioniero.
Reynolds continuava a guardare altrove. Il suo volto aveva un’espressione dura e risoluta.
“Facile se hai la fedina penale pulita.”, pensò Sonny.
Prendere la pistola adesso e sparargli.
Averla magicamente in mano, ora che era girato e… bang!, fine dell’incubo. Della prima metà. Beh, di una buona dose di stress…
Il poliziotto non si voltava. Era chiaro che aveva deciso di porre fine a quella situazione assurda, in un modo o nell’altro.
-Ok…- cominciò Sonny, la voce calma, quasi monocorde se non per piccole sfumature in cui la stanchezza si palesava. -Non ti faccio fuori, non adesso. Se ti do da mangiare è perché stai vivo, che ti piaccia o no. Se tu non fossi così tanto sbirro potrei allentare quelle manette, ma sei fottutamente sbirro, e la faccenda è più complicata. Se tu bevi, e mangi, sei più lucido. Se non bevi, e non mangi, sei solo un fottuto bambino che non sa stare dall’altra parte delle sbarre senza sbattere i piedi e fare il faccino imbronciato. Quindi…- Sonny si alzò, come rianimato dalle proprie parole, riprendendo la bottiglia. -Adesso tu bevi.- e piantò il collo della bottiglia sulla guancia di Reynolds, prendendogli la testa con l’altra mano e strattonando per girarla.
Reynolds si svincolò con un ringhio. Nonostante tutto manteneva un’insospettata forza. -Io pesto i piedi?- ribatté, la voce un sibilo cattivo. -E tu chi cazzo sei per venirmi a fare l’analisi psicosociale del comportamento? Chi cazzo credi di essere? Pensi di potermi imporre quello che vuoi solo perché hai una pistola in mano e mi hai messo le manette? Vaffanculo. Tu sei solo un bambino spaventato capitato in un gioco più grande di lui. Fatti spuntare un po’ di palle e ne riparliamo, bamboccio!-
Sonny strinse le dita sul vetro.
Non poteva fare a meno di guardare l’altro negli occhi.
E d’altro canto non poté fare a meno di pensare che ancora due secondi e sarebbe esploso.
Ancora due…
Ancora due…
E una boccata d’aria, chiudendo gli occhi.
Ma, riaprendoli, la situazione era esattamente la stessa.
-Qui non stiamo parlando di come sono fatto io.- uscì dalle sue labbra, ma non aveva mai sentito la sua voce articolarsi in quel modo. Se fosse stata un oggetto, sarebbe stata un pagliaio pericolosamente vicino a una scintilla. -E non mi devi dimostrare un beneamato cazzo. Devi bere. Punto. E non per farmi felice. Non perché tu sei lo sbirro o io ho la pistola o tu le manette o porco dio. Devi bere perché devi bere.-
Reynolds si voltò distogliendo lo sguardo.
La bottiglia, leggermente tremante, si avvicinò alle labbra dell’agente.
Inutile cercare ancora il suo sguardo, pensò Sonny, e la lasciò lì, leggermente reclinata, pensando a come fare per non pensare abbastanza a lungo per ricominciare a pensare lucidamente.
La bottiglia rimase intonsa.
Venti minuti dopo, Sonny era seduto sul proprio letto, la radio accesa, carne secca sgranocchiata come patatine.
-Ehy, sbirro, ma mi spieghi per quale cazzo di motivo uno come te se n’è andato dai berretti verdi?-



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