DIO'S BIOS & HYOGA
DOG EAT DOG

O5




Tutti i dolori sono piccoli lutti che concimano nuova vita.
La dottoressa doveva averlo letto quella stessa mattina sulla rivista che Sonny si era poi trovato in camera.
Quando era venuta a constatare le sue condizioni, premurosa come una mammina da telefilm del pomeriggio, glielo aveva detto con sentita saggezza.
“Tutti i dolori sono piccoli lutti che concimano nuova vita.”
Doveva essere un po’ confusa su come nascesse, la nuova vita, ma Sonny doveva ammettere che la doc sapeva essere più gentile di qualsiasi sconosciuto avesse mai incontrato.
Ecco, ad esempio…
Lex Reynolds, nel turno del pomeriggio.
Ancora lì seduto, la sedia un po’ piccola per il suo aitante robusto corpo da poliziotto. Tratti algidi da nazi. Sguardo ottuso a ciò che è giustizia e ciò che non lo è. E Sonny avrebbe potuto continuare a lungo a tirare imprecazioni silenti in direzione dello sbirro, ma il fatto non cambiava.
Il nazi lo faceva sentire terribilmente a disagio.
Lo faceva rizzare sul letto come se al suo arrivo tante piccole spine uscissero dal materasso, e lui si trovava costretto a distrarsi almeno un po’.
Ad esempio:
-Da quant’è che sei in servizio?-
-Non sono affari tuoi, negro.-
Gelido, asciutto. Non alzò neppure la testa dal libro che stava leggendo. Sonny avvertiva confusamente che l’ombra di confidenza che si era creata tra loro, se mai si era creata, si era frantumata in maniera irrimediabile.
Se poi Dio non fosse stato un nazi ariano, con la tipica ironia dei nazi, gli avrebbe messo davanti un poliziotto diverso, come primo poliziotto con cui socializzare, piuttosto che quella specie di reduce Big Jim fissato con il regolamento e i tumori ai polmoni.
Come inizio non era granché facile.
Soprattutto considerando che il sangue freddo di cui Sonny necessitava in quei giorni stava scemando lentamente, inerte e inutile in quel letto.
Un bambino scalzo accudito da tizi in divisa.
Sonny buttò lo sguardo sul libro, il solito, e con noncuranza buttò anche una domanda:
-E oggi di che parla?-
-Parla della stessa roba di cui parlava ieri. Ti ho detto di non rompere.-
-Altrimenti, sbirro? Mi fai la stessa roba che mi hai fatto ieri?-
-Ma non rompere i coglioni.-
Non alzò neppure la testa. Aveva sbagliato a dare confidenza a quel ragazzo e ora doveva mantenere le distanze.
-Beh, sbirro, almeno ti sei sciolto nel linguaggio, eh? Ancora un po’ e mi chiamerai fratello.-
Sonny trattenne una risata.
-Non sono tuo fratello, Norton. E ora piantala.-
Zero sul grafico della simpatia del poliziotto.
E allora tanto valeva divertirsi.
-Oh, mia madre è una gran brava donna. Ma mio padre era uno sporco bianco chiavatore, se ci pensi non sarebbe così strano, no?-
Il poliziotto non diede neppure l’impressione di aver sentito quello che diceva. Neppure un fremito sul suo viso impassibile.
Sonny si sporse, mettendosi su un fianco, la testa poggiata sulla mano.
-Mi spieghi che roba è? Non ho mai visto una cosa così potente da lobotomizzare completamente qualcuno… Roba militare, del governo?-
Reynolds rimase ancora impassibile. Sembrava che il chiacchiericcio del ragazzo fosse un rumore di fondo, come il ronzio di un motorino.
-Come funziona? Spiegamelo. Vi tirano su due per gabbia e per tutta la fase dei “perché” vi prendono a frustate? No, aspetta… Scosse elettriche, giusto?-
Immobilità assoluta da parte del poliziotto. Voltò la pagina, la lisciò con il palmo, disfò un’impercettibile piega.
-No, adesso ho capito. Siamo noi delinquenti quelli fortunati.- Sonny annuì con la testa, saccente. -Voi crescete impalati come maiali di una multinazionale, il manganello su per il culo e a turno il cazzo del capo in bocca. È una protesi, quella che hai in bocca?-
Reynolds continuò a leggere senza nemmeno alzare un sopracciglio. Unico problema: il ragazzo stava alzando il tiro e tra un po’ avrebbe dovuto zittirlo comunque.
Certi discorsi non sono adatti ad un ospedale.
Sonny chinò la testa sul cuscino teatralmente esasperato, l’avambraccio in verticale e la mano ciondolante.
-Niente pompini, non sta lì il punto, giusto? Dev’essere proprio qualcosa alla mamma. La mamma è sacra, vero sbirro? La mamma è sempre sacra. O magari era la sorella? Scusa, se te lo ricordi, eh, ma qual era quella più troia?-
Il poliziotto voltò nuovamente la pagina. Riusciva a leggere nonostante tutto. E a seguire quello che leggeva. Diede una rapida occhiata all’orologio e riprese la sua lettura.
-Non devi fare così, sbirro, dammi almeno una mano… Quando di notte me lo sbatto non mi ricordo mai come cazzo gemeva quella puttanella. Non è che me lo rifai? Tanto lo so che stavi lì a spiare uno dei fratelli che se la sbatteva a pecorina…-
Reynolds era talmente immobile da far pensare che fosse una statua. Solo gli occhi su muovevano appena su e giù lungo le righe dello scritto.
Di nuovo la buona vecchia regola: mai rispondere alle provocazioni di un delinquente.
Sonny si chiese a che punto fosse con la sua terapia personale: Far saltare i nervi allo sbirro d’oro per il divertimento del paziente.
Gli sbirri non li capiva.
La strana razza a volte funzionava al contrario. Più s’incazzavano più sembravano calmi.
Prese il bicchiere d’acqua dal comodino, ne bevve un sorso.
-Ehy, sbirro, ci sei o mi devo preoccupare di non essere ben controllato?-
-Ci sono.-
-Ah, bene.- Un altro sorso. -Leggimi un po’ l’ultima frase…-
Stavolta nessuna risposta.
-Riflessi zero, eh?- domandò Sonny, seccato.
Riflessi zero?
Guardò il bicchiere che teneva in mano.
Vediamoli, questi riflessi zero.
Lo lanciò a piena forza esattamente ai piedi dello sbirro.
Reynolds aveva immaginato il gesto non appena aveva visto Sonny prendere il bicchiere in mano. Dopo un po’ le provocazioni dei delinquenti diventano prevedibili. Aveva aspettato il lancio del bicchiere come un corridore sui blocchi di partenza. E scattò. Non una sola goccia d’acqua addosso o sul libro, il bicchiere infrangibile rotolò sotto il letto.
-Da dove cazzo sei uscito, eh?- domandò Sonny guardando dispiaciuto il suo progetto sfumare.
Reynolds non lo guardò neppure in faccia, si sedette e riprese in mano il libro.
Come se l’episodio non avesse mai avuto luogo.
-Non puoi startene zitto e buono per tutto il tempo, cazzo!- urlò Sonny mettendosi a sedere sul letto.
Almeno l’altro sbirro suo amico mutava espressione.
Era divertente, una specie di piccolo fumetto senza parole.
Non questa maschera da teatro greco.
-Vogliamo giocare a nascondino, eh?- Sonny si chinò dall’altra parte del letto. Lima per le unghie. Di quelle morbide, che si consumano dopo due usi. Non sapeva neanche perché durante la mattinata l’aveva chiesta alla dottoressa, o perché lei avesse accettato di dargliela. Limarsi le unghie risolleva psicologicamente sociologicamente il morale?
La infilò, in modo che lo sbirro non potesse vedere l’oggetto, nel camice. Piccolo oggetto appuntito sotto la stoffa. Poi si sedette compostamente davanti a Reynolds, la stoffa tirata in vista. -Norton dove ha nascosto la lama…?-
La reazione di Reynolds ebbe la latenza di una frazione di secondo. Norton si trovò la 357 magnum del poliziotto puntata tra gli occhi.
-Le mani bene in vista, negro, e vediamo cos’hai lì sotto.-
La voce era fredda, gli occhi sembravano trapassarlo, ma il viso non tradiva la minima emozione.
-Dai, stronzo, usa sempre quella cazzo di pistola per avere ragione…- sibilò in risposta il ragazzo digrignando i denti. Alzò le braccia, lentamente, in modo che la lima finisse tra le tante pieghe del camice, nascondendone il più possibile il reale peso.
Sempre tenendogli la pistola puntata, Reynolds recuperò la lama. La sua espressione non cambiò neppure dopo aver constatato di cosa si trattava. -Sta attento quando scherzi, negro, potresti farti male.- disse, rinfoderando la pistola e sedendosi di nuovo.
-Cazzo, amico, ce ne vuole per avere la tua attenzione, eh?-
Sonny abbassò le braccia, rimanendo seduto.
-Adesso torni al libro? Guarda che posso fare un sacco di altre cose, sai? Tu sei una testa di cazzo e da bravo sbirro mi rimetterai a sedere ogni volta, e faremo un divertente giochetto da bambini per sei ore…-
No, non era una testa di cazzo.
Ma che Sonny fosse paranoico o meno, e la situazione dava buona premesse, quello sbirro era un po’ troppo sbirro da film per risultare convincente.
Il poliziotto non rispose, preparandosi psicologicamente alle sei ore di giochetti. Non era certo il peggio che gli era capitato in servizio.
-Non ti conviene darmi corda? Eviti a entrambi qualche giorno di vita in meno… No, sbirro?-
Passi rapidi di tacchi femminili distrassero entrambi dal gioco della provocazione allo sbirro. Entrò in stanza la dottoressa che nei giorni Reynolds aveva scoperto chiamarsi Menzies.
O Christine, come amava ripetere a Norton.
Sonny la guardò con lo sguardo più povera-vittima-della-società-ingiusta che riuscì a concepire.
Neanche una puttana l’avrebbe guardata così.
-Che c’è Sonny caro?- si informò lei con voce flautata.
Il ragazzo sporse il viso in avanti, le labbra socchiuse.
L’aveva capito il perverso gioco dei silenzi.
E si voltò dall’altra parte, abbassando leggermente lo sguardo.
-Niente.-
La dottoressa capì al volo, o almeno credette di farlo. Quei poliziotti odiosi che stavano lì a controllare quel ragazzo come mastini.
Lo stressavano inutilmente ritardando il processo di guarigione.
-Durerà ancora molto questo controllo nazista, agente?- si informò acida.
Reynolds alzò lo sguardo sulla dottoressa con un sospiro esasperato. Non c’era giorno in cui l’argomento del controllo nazista non venisse affrontato.
-Ma non ha mai un giorno libero, dottoressa?- chiese esasperato. -Un giorno in cui sta a casa sua, aiuta i bambini handicappati, visita gratis i negri e non viene qui a chiedermi la solita cosa che ormai sa benissimo?-
La dottoressa sobbalzò colta alla sprovvista.
-Ma come si permette?- disse indignandosi alquanto.
Reynolds la fissò senza parlare.
-Ora basta!- riprese la Menzies sempre più sdegnata. -Ne ho abbastanza dei suoi modi da nazista! Adesso lei esce di qui e lascia in pace questo povero ragazzo!-
Sonny la guardò, ancora seduto sul letto, le spalle magicamente cadute più in basso di quanto avessero mai fatto nei precedenti vent’anni.
-La smetta lei, dottoressa. Io ho degli ordini.- sospirò Lex esasperato.
Sempre più in basso, le spalle e il torace di Sonny.
Dai, troia, compatiscimi come sai fare tu.
La dottoressa Menzies lanciò un’altra occhiata come di intesa a Sonny. Che bella alleanza terapeutica stava costruendo con quel ragazzo!
-Non mi interessano i suoi ordini!- ribatté. -Ora esca di qui o vado a chiamare il direttore sanitario!-
Il poliziotto sospirò e rispose: -Lei può chiamare anche il presidente degli Stati Uniti, se vuole, il discorso non cambia.-
Sonny sospirò, eloquente (eloquente? Oh, sicuramente la dottoressa avrebbe trovato qualcosa in quel sospiro) e si abbandonò impotente sul letto.
-Venga fuori!- gridò la Menzies, a questo punto con un tono di voce che sconfinò dall’esasperazione all’isteria. -Venga fuori a parlarne almeno, specie di nazista!-
Imprecando a bassa voce, Reynolds la dovette seguire in corridoio, o quella sarebbe stata capace di mettersi a strillare.
La porta si chiuse, e dietro la porta il poliziotto.
Con una porta tra lui e il poliziotto, si crea un prima e un dopo, pensa Sonny.
E in una prospettiva in cui l’unico dopo è un carcere per troppo tempo, l’unica cosa che deve fare è sfuggirne.
E lo fa.
Apre il cassetto, la chiave dell’armadietto.
Consequenziale semplice logica con la chiave apre l’armadietto e dall’armadietto prende i propri vestiti.
Fanculo alla macchina, sente le voci fuori urlare e potrebbero rientrare con uno scatto d’ira.
Si veste, infilandosi i pantaloni in tutta fretta e pensando a quante volte ha pensato che è al primo piano e tutto sarà dannatamente semplice.

Reynolds sta ancora litigando con la dottoressa. Le ripete che non ha senso litigare, che tanto lui starà piantato lì come un palo fino a che non lo rileveranno, che la minaccia di chiamare il capo della polizia o il direttore sanitario o i giornali o chiunque altro sulla faccia della Terra non lo smuoverà di un millimetro. La Menzies, paonazza d’ira e tuta presa nel suo ruolo di argine allo strapotere della polizia prevaricatrice, non lo ascolta nemmeno.
Alla fine, il poliziotto semplicemente le gira le spalle e rientra in camera.
La prima cosa che vede, ancora prima del letto vuoto, è l’anta dell’armadio aperta. E anche la finestra.
Cazzo, l’ha fatto, si dice. Quel gran figlio di puttana.
Non perde neppure un attimo a descrivere alla dottoressa tutte le conseguenze legali del suo gesto - non ha tempo per divertirsi. Ora deve recuperare Norton.
Si lancia alla finestra, in un attimo valuta la situazione. Il ragazzo è corso di là, verso il vicolo. C’è ancora un bidone dell’immondizia rovesciato che sta finendo di rotolare.
Senza una parola - non ne ha il tempo - salta anche lui.
Atterra con un movimento elastico, ammortizzando l’impatto. Un mezzo migliaio di lanci col paracadute all’attivo.
Scatta di corsa nel vicolo. Lo sente laggiù, può quasi sentirlo ansimare, in contrappunto coi passi concitati della corsa sfrenata.
Starà correndo verso il ghetto, il quartiere dei negri. Lo deve riprendere, non può lasciarselo scappare così.
Uscendo dalla zona dell’ospedale, passando per vie secondarie o cortili di case, è quasi alle sue spalle.
Una decina di metri ed è suo, e il ragazzo ha già il fiato corto per la corsa.
Ma i rari passanti, che sono lestissimi a farsi da parte quando passa il negretto, casualmente cominciano a mettersi in mezzo alla strada quando Reynolds sopraggiunge.
Stronzi.
È nel ghetto, tutte facce dal marrone in su.
L’agente li evita agile, ma questo comunque lo rallenta. Sente che il suo obiettivo si allontana, quasi gli sta sfuggendo.
Al tempo stesso, la gente in giro diminuisce, le case intorno si fanno più fatiscenti.
Reynolds comincia a notarle, perché rallenta la sua corsa guardandosi intorno. Non c’è più Norton in vista, ma non può essere andato lontano.
La corsa diventa un passo veloce, per poi arrestarsi del tutto. Il poliziotto si guarda intorno: un cortile fatiscente, annerito dallo smog, pochi panni stesi su fili tirati tra gli alberi spelacchiati, una fila di finestre socchiuse dietro le quali occhi malevoli lo stanno scrutando.
Brutto posto per un poliziotto da solo.
Reynolds fa qualche altro passo, il respiro ancora vagamente ansimante. L’atmosfera che rileva è decisamente ostile.
Il suono di suole di gomma gli arriva quando sono a pochi passi dietro di lui.
Veloci, organizzati, premeditati.
Prendere la pistola e girarsi di scatto è quasi un riflesso condizionato. Punta, indietreggia. Cane alzato, sicura tolta, colpo in canna.
-Fermi! Polizia!-
È pronto a sparare. Se la tiri fuori è per usarla. Se la usi è per usarla bene. Ovvero per colpire.
Una vecchia regola.
Ma i tre che gli stanno arrivando addosso, due bagliori opachi di spranghe e una mazza da baseball localizzata subito, non hanno preventivato che si girasse.
E mentre la spranga più vicina è a due metri da lui, il ragazzo che la sta impugnando ha già alzato un passo abbastanza lungo per non poter retrocedere.
Tre negri, il più piccolo grosso quasi quanto lui, tutti e tre armati. Reynolds non esita nemmeno un secondo: spara al più vicino, che crolla con un lamento.
La mazza da baseball del secondo lo raggiunge alla spalla mentre sta mirando di nuovo.
-CRISTO!- sente urlare alle sue spalle, mentre la spalla cede indietro e la massa del secondo lo travolge.
Rimarrebbe in piedi, non fosse per la spranga del terzo, laterale sul fianco.
E altri, più di due, li sente alle spalle.
Si rivolta come un puma, colpendo nel mucchio. Impossibile seguire un metodo, una scuola. Ne ha sei addosso e tutti stano cercando di colpirlo. Si incitano a vicenda, si spalleggiano, si intralciano, imprecano. Hanno un che di selvaggio, di folle. Il sangue di un poliziotto è una droga potente.
Reynolds non sente nulla, niente dolore, niente fatica. L’adrenalina sta funzionando a dovere.
Ma non basterà a tirarlo fuori da quella situazione.
Altre urla, nomi e imprecazioni in contrazioni che non conosce.
Sente, riconosce, che alcune sono insulti a lui.
Gergo che non ha mai avuto occasione di sentire da vicino.
I colpi continuano, diventando un’onda totale che spazza via l’energia, mentre rimane solo l’adrenalina a tenerlo cosciente.
La gelida determinazione di Reynolds viene infine stroncata da un ultimo colpo che lo lascia al suolo immobile.
-Ce n’è voluto, cazzo.- dice una voce.
-Fottuto sbirro.- è la risposta
Il corpo immobile del poliziotto è circondato dai sei negri ansimanti, schizzati di sangue, sudati.
-Figlio di puttana.- dice un terzo.

Sonny era entrato in “casa” da un tempo variabile tra i tre minuti e nulla.
Aveva visto Sedgwick, Sedgwick lo aveva visto. Senza parole, senza spiegazioni, senza gesti, si erano intesi in quel breve spazio che era stato meno di nulla, e Sedgwick, con la sua imponente e rassicurante massa, era riuscito ad accoglierlo a casa.
Una sensazione che aveva inondato Sonny più velocemente di uno sparo.
Poi, era arrivato lo sparo vero e proprio.
Da fuori, dal cortile.
E non c’era voluto molto di più per collegare e capire.
Con i vestiti che gli puzzavano ancora addosso di ospedale, Sonny era sceso.
Ridiscesi i due piani di scale, fino al cortile, dove una quindicina di ragazzi si erano riuniti, più o meno scompostamente, più o meno ordinatamente.
Qualsiasi cosa fosse successa, non era bene, e andava risolta in fretta.
-Vai su.- gli aveva detto Sedgwick con un cenno degli occhi, e Sonny aveva ribattuto.
Veloce, fulmineo (non c’era altro ritmo in quel momento), incapace di non ribattere davanti a un comando.
Ma lo sguardo dell’amico era stato eloquente, e Sonny era tornato indietro, lasciando al cortile ciò che era del cortile.
Quello era uno sbirro.
Anzi, quello era lo sbirro.
Probabilmente quello era.
E comunque fosse finita la faccenda, anche il fratello più caro si sarebbe rivoltato addosso a Sonny, in panico, urlandogli che se l’era portato dietro.





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06

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