DIO'S BIOS & HYOGA
DOG EAT DOG

O1




Lex guardò l'orologio. Le 08:00. Ora di smontare. Diede un'occhiata al detenuto che stava ancora dormendo, rannicchiato sulla branda. Non aveva fatto casino. Strano, di solito Norton rompeva i coglioni tutta la notte.
E a proposito di Norton, c'era da controllare se il trasferimento al penitenziario era già stato organizzato.
Non che fosse competenza sua, ma gli piaceva lasciare il turno dopo aver controllato tutto. Prese il telefono e compose un numero interno.
-Sì, sono Reynolds. Volevo sapere chi porterà Norton al penitenziario...-
Pausa.
-Cosa? Come sarebbe a dire che non ne sapete niente? Talbot ve l'ha comunicato ieri. L'arresto è avvenuto alle 16.45.-
Altra pausa.
-Cazzo. Beh, grazie lo stesso.-
Mise giù il telefono e proferì un paio di sentite imprecazioni. Una dannata complicazione. Talbot si era dimenticato di notificare l'arresto. Ciò significava alcune rogne col tribunale e col penitenziario. Ma soprattutto significava che per un altro giorno Norton avrebbe occupato la cella.
Reynolds lanciò una seconda occhiata al detenuto. Una dannatissima complicazione. Prese lo sfollagente e lo fece scorrere sulle sbarre, producendo uno sgradevole rumore metallico.
Il ragazzo sembrò attraversato da una scossa, poi aprì gli occhi.
Si guardò attorno un attimo, riportando in fretta alla mente gli avvenimenti delle ultime ore e di come fosse finito lì e non nel proprio letto, e scosse la testa in direzione dell'agente.
-Sveglio...- annuì, la voce ancora impastata.
Lex lo guardò mettersi seduto e ripristinare i collegamenti con la realtà. Aspettò che fosse almeno un minimo vigile e attento, non gli piaceva ripetere le cose. Poi, finalmente, quando giudicò che fosse sufficientemente sveglio, parlò.
-Starai qui ancora un giorno. Sarai trasferito domani.-
Sonny sbatté gli occhi un paio di volte, riassestando le immagini con le parole.
-Che cazzo significa un altro giorno? E trasferito dove?!-
Si alzò in piedi passandosi una mano sul viso per scacciare il poco sonno rimasto.
Magari lo sbirro si era espresso male.
Non aveva senso che lo tenessero lì...
Reynolds aggrottò appena le sopracciglia. Aveva voglia di andare a casa a farsi una doccia, non certo di stare a discutere con un delinquente mezzo negro.
-Trasferito al penitenziario in attesa del processo. Ma ci andrai domani. Oggi non è possibile.-
Raccolse le sue cose ed uscì in silenzio.
-Aspetta, sbirro!- urlò Sonny lanciandosi contro le sbarre, e cercando di sporgere la testa. -Non ha senso!!! E poi per cosa vorrebbero processarmi?!-
Ma Reynolds era già uscito. E se l'aveva sentito, di certo non aveva intenzione di tornare indietro ad elencargli i reati che aveva commesso.
-Fanculo!- imprecò Sonny e tirò un calcio al letto, stringendo tra i denti il dolore dell'urto e tutte le fastidiose fitte che saettavano per il corpo dalla sera prima.
Un processo per cosa...? Una rissa da pub e un po' di coca in tasca? Se non ci fossero stati ragazzi come lui a rifornire ogni volta la centrale di coca e acidi, come avrebbero fatto gli sbirri a tirarsi su il morale?
Probabile che Reynolds stesse bluffando. Sì, sembrava il tipo. Massima correttezza e seguire le procedure, anche se sarebbe stato assurdo processare uno come Sonny.
Non era altro che un pesce piccolo.
Senza sigarette né coca.
Lividi ancora da espiare sparsi per il corpo e nessun elisir magico con cui alleviarli.
-FOTTUTI ROTTINCULO!- urlò, ma l'unica cosa che ebbe in risposta fu la sua eco.

Le ore passarono lente.
Sonny trascorse tutta la giornata da solo, a parte gli agenti che gli portarono da mangiare agli orari stabiliti.
Dovevano essere passate... Quante ore? L'orologio segnava le 9.
Aveva trascorso l’intera giornata a dirsi che mancava ancora poco. Se lo diceva ogni cinque minuti, o questa era stata la sua impressione, fino a che la lancetta delle ore aveva fatto un giro completo e lui si era ritrovato con le mani bagnate di sudore freddo.
Non aveva visto nessuno.
Non aveva fumato una sigaretta.
La porta della stanza si aprì con un rumore secco. La massa enorme di Meyers, il vecchio dall’aria saccente, si fece strada nella stanza come un carro armato.
Passo dopo passo, la camminata di uno che gioca in casa, fino alla cella.
-Ancora qui, negro?- chiese con tono beffardo, le labbra secche e sottili rigide come una protesi.
Dietro di lui apparve van Kempen, il suo tirapiedi personale.
Sonny, seduto sul misero letto, mosse solo gli occhi.
Erano due figli di puttana, e non avrebbero esitato, la sera prima, a rovinarlo. Se non fosse stato per Reynolds... Tutto il rispetto, certo, ma quello stronzo era più intransigente di un vecchio pappone.
Invece i due sbirri avevano l'aria di essere un po' meno docili con il regolamento... Bastava non ricordare loro come Reynolds, la sera prima, li avesse messi a cuccia.
-Dicono che mi vogliono fare il processo...- disse Sonny, stringendo tra le dita la plastica spiegazzata di un pacchetto. -Si saranno confusi.-
-Sei mai stato in galera, negro?- gli chiese Meyers, dopo averlo guardato per un po'.
Van Kempen lo seguì a ruota, un ghigno prepotente a introdurre le sue parole. -E dai, John, vuoi che non ci sia stato? Un negretto delinquente e bastardo come questo?-
Fissò il detenuto provocatorio. -Ma se non ci è ancora stato proverà l'ebbrezza domani, dico bene?-
I due si accomodarono alla scrivania, tirarono fuori il termos del caffè, si accesero una sigaretta alla faccia del divieto.
Sonny sbuffò, abbandonando lo sguardo sulle sue dita sporche di polvere.
Ne era quasi sicuro, quella faccenda del processo era un errore.
Prima di sbattere dentro lui c'erano molte altre persone da pizzicare... Gli vennero in mente almeno venti nomi da mettere in lista.
Una folata di tabacco raggiunse le sue narici proprio mentre si chiedeva se i due agenti potessero saperne effettivamente qualcosa o se stessero semplicemente bluffando.
Piena, calda… Anche il peggior tabacco aveva un retrogusto irresistibilmente invitante dopo ventiquattro ore di totale astinenza.
E probabilmente i rottinculo lo sapevano, e avevano ancora voglia di rifarsi.
Ah no, non con lui.
Ignorò volutamente la domanda voltando il viso dall'altra parte.
-Il negro del cazzo non risponde.- disse van Kempen, ruotando il termos con indice e pollice.
-Chi tace acconsente.- rispose l'altro. -E sicuramente gli avranno anche già rotto il culo. Vero, negro rottinculo?-
Risero, gli sbirri, come gli sbirri sanno ridere, metallici con o senza denti d’oro.
Fumando le loro sigarette, sicuramente sapendo quanto aveva voglia di fumare.
-Informazione sbagliata, sbirri.- rispose secco Sonny.
Piantò le unghie sul metallo del letto, e graffiò fino a farsele dolere.
Non poteva permettersi risposte azzeccate, e per una volta avrebbe dovuto imparare a tacere.
Non troppo, magari.
Senza neve in corpo si sentiva intorpidito.
Meyers e van Kempen si scambiarono uno sguardo d'intesa. Quello stronzo succhiacazzi di Reynolds era a casa sua a studiare il regolamento, non avrebbe rotto i coglioni. E avevano la meravigliosa occasione di farla pagare a quel negro di merda.
Gliel'avrebbero fatta pagare per un sacco di cose.
Per aver castrato un loro collega, tanto per cominciare. E poi si sarebbero sicuramente inventati qualcos'altro, la fantasia in certi casi non manca.
Sonny serrò la mascella, per l'ennesima volta.
Aveva compiuto quel gesto abbastanza volte da sentire i denti e gli zigomi indolenziti.
Lanciò un'occhiata nervosa ai due sbirri, le labbra secche di Meyers strette sul filtro giallastro, nuvole di fumo verso il soffitto.
-C'è puzza qui dentro.- disse Meyers dopo un po'. Schiacciò l'ennesima sigaretta fumata a metà nel portacenere.
-Sì, tanfo di negro,- asserì l'altro annusando ostentatamente l'aria. -chissà da dove viene? Forse da questo figlio di puttana del ghetto?-
Sonny sorrise scuotendo la testa canzonatorio, i denti sempre più stretti, la mascella serrata in un tic evidente.
Si sarebbero rotti i coglioni, prima o poi.
Era riuscito a reggere fino a quel punto, qualche frase da stronzo secondino in più non avrebbe fatto la differenza.
Anche se doveva ripeterselo in continuazione, con lo sgradevole effetto di sentire le parole come macigni sulle sue tempie.
Meyers si avvicinò lentamente alla cella, senza fretta, la sigaretta a un angolo della bocca, le mani a pugno sui fianchi. Scrutò dentro con un ghigno indurito. Vide il ragazzo con le mascelle contratte, teso, il volto imperlato di sudore, i capelli che gli si incollavano sulla fronte. Il tremito delle mani serrate era fin troppo evidente.
Aveva visto abbastanza drogati in astinenza da riconoscere senza ombra di dubbio i sintomi che stava osservando.
-Che c'è, negretto, ti manca la coca?- gli chiese con una risata fischiante.
Sonny si voltò con uno scatto, gli occhi sbarrati e le narici dilatate.
-È solo una tua impressione, sbirro.- rispose, la gola secca. -Intendi rompermi i coglioni ancora a lungo?-
Le unghie grattarono stridenti il metallo.
-Ah, è una mia impressione?- ribatté l'altro soffiando deliberatamente il fumo verso la sua faccia. -Mi dispiace per te, ma ti romperò quanto mi pare. Qui sono io che decido.-
Tornò dal collega, gli strizzò l'occhio. -Che ne dici di fare qualcosa per questo tanfo di negro rottinculo?-
-Già, perché non mi fate un piacere e andate a farvi fottere?-
La mano di Sonny, in uno scatto, scivolò fino al bordo, le unghie limate irregolarmente.
-Chiama gli altri due, van Kempen.- disse Meyers tornando alla scrivania. -Adesso insegniamo l'educazione al negretto.-
Si accomodò sulla sedia mettendo i piedi sulla scrivania. Si voltò verso la cella. -Che ne dici, negro?-
Sonny deglutì.
Ok, c’era arrivato.
Punto di non ritorno, quando gli sbirri dicono una cosa la fanno.

E l’unica cosa che può fare lui, l’unica cosa che può dirsi, è cercare di evitare il peggio.
-Che cazzo volete fare?- chiede, le parole sputate fuori, guardando dritto davanti a sé: il pavimento, e piccoli pezzi dei pacchetti che ha strappato durante la giornata.
Un piccolo sterminio.
Il veloce collegamento mentale gli affanna il respiro.
Basterebbe solo una riga, una sola, e ne è sicuro, cazzo, stavolta potrebbe affrontarli tutti quanti.
I due si avvicinano affiancati alla cella, si muovono all'unisono come se avessero ripetuto la scena decine di volte. E probabilmente è proprio così. Guardano dentro, osservano le carte strappate, la branda sfatta.
-È un casino qui dentro.- dice van Kempen, le sopracciglia quasi inesistenti aggrottate sugli occhi. -Del resto, qui stiamo parlando di un negro, mica di un fottuto essere umano.-
-Già, un casino.- conferma l'altro. -Si vede che a casa sua è abituato così.- Poi, rivolto a Sonny: -Non ve l'insegnano l'educazione a voialtri negri, eh?-
Osservano ancora una volta compiaciuti il suo volto sudato, le rughe sulla fronte contratta. Sogghignano. -Guarda che scimmia che ha.- dice van Kempen.
-T'è presa proprio brutta, eh, negro?-
In uno scatto, il ragazzo si alza, le braccia tese lungo il corpo.
-Perché non entri qui da solo, stronzo?!-
È un urlo, e rimbomba nella sua testa più che fuori.
Cazzo, l'adrenalina.
Cazzo, l'adrenalina in questo stato è un martello.
-Mi hai dato un'idea.- risponde Meyers, un metro e novantacinque per centoventi chili di peso. È famoso per spaccare i ferri di cavallo con le mani.
Apre la cella, entra lentamente, facendo crocchiare le giunture delle mani chiuse a pugno.
-Sono dentro, negro. Da solo. Facciamo conversazione?-
Sonny si accuccia leggermente in ricezione, per abitudine, gli avambracci alzati.
È solo un cazzo di sbirro.
“Solo un cazzo di sbirro.”, sillaba Sonny in testa socchiudendo gli occhi.
-Sono gentile.- sibila, la maglietta ormai incollata alla schiena. -A te la prima parola.-
La prima parola di Meyers è un diretto alla mascella che lo sbatte per terra.
Fa un passo indietro aspettando che l'altro si alzi. Ridacchia soddisfatto del risultato ottenuto, mentre Sonny ingoia mugolii di dolore.
-Tu non hai educazione, negro. Bisogna che qualcuno ti insegni come trattare i poliziotti.-
Si rialza, Sonny, fino a inginocchiarsi, gli avambracci tremanti di sudore freddo.
-Chi, tu, figlio di puttana?!-
Non sente le proprie parole, mentre con un balzo, non sente il peso della propria spinta, si lancia verso Meyers.
All'ultimo lo pensa. È un suicidio.
Ma ormai è fatta.
Forse lo colpisce, perché sente l'impatto con la massa del poliziotto e il suo grugnito soffocato. Subito dopo Meyers si raddrizza, lo colpisce di nuovo, stavolta in pieno viso.
L'osso del naso scricchiola mentre Sonny finisce contro la parete.
Un attimo di respiro e Meyers gli è di nuovo addosso, stavolta con due colpi al corpo. L'impatto è quello di un treno merci. Si ritrae ansimando leggermente e guarda il ragazzo che scivola lentamente a terra.
-Tu hai bisogno di una bella lezione, negro.- ringhia. Poi, rivolto a van Kempen: -Gli facciamo una bella doccia. Guarda se sono arrivati i ragazzi.-
Il ragazzo, a terra, si raggomitola in posizione fetale.
Che abbia sentito o meno quelle parole, l'unica cosa che riesce a fare è emettere un basso gemito rauco, una mano che lo soffoca mentre si protegge, troppo tardi, il naso.
I due entrano nella cella, lo sollevano, lo ammanettano con le braccia dietro la schiena. Lo trascinano fuori. Si sentono altre voci nella stanza, i “ragazzi” sono evidentemente arrivati.
-Pickett, Lewinsky, abbiamo una doccia da fare.- dice Meyers, le labbra sottili raddrizzate in un sorriso.
-Una doccia al negretto?- questa dev'essere la voce di Lewinsky. -È una buona idea. Sono sempre sporchi, questi figli di puttana.-
La bocca di Sonny si muove, sangue sul labbro superiore, articolando suoni troppo confusi per comporre parole.
È sangue, metallico, quasi familiare.
Anche le braccia costrette, dopotutto.
Non l'impotenza, quella no.
I muscoli sono così caldi che non riesce a sentire le contrazioni che lo scuotono, perse come urla nel nulla.
Lo trascinano fino alle docce, una stanza piastrellata di bianco con due rubinetti e una doccia come unico arredamento. Lo gettano a terra, gli schizzi di sangue a contrastare crudamente con le mattonelle. Ammanettato com'è, Sonny non riesce ad attutire la caduta e sbatte col viso.
La posizione scomposta, gli occhi chiusi, l'unica cosa che attesta che è vivo è il tremore che lo scuote.
Non recepisce, ed è questo ad angosciarlo.
La totale impotenza di non riuscire a reagire perché l'unica cosa che riceve del mondo esterno è rosso, sangue o adrenalina, totale davanti ai suoi occhi chiusi.
I quattro iniziano a pestarlo, metodicamente, senza neppure intralciarsi fra di loro. Nessuno parla. Ogni tanto un grugnito soffocato o un ansito.
E naturalmente il rumore sordo dei colpi sulla carne soda.
Poi si fanno indietro, lo guardano compiaciuti.
Il ragazzo è steso ai loro piedi, immobile sulle mattonelle chiazzate di sangue scuro. Ansima leggermente, e già questa sembra una fatica immane.
-E ora la doccia!- ghigna Meyers.
Lo sollevano di peso, gli strappano i vestiti aprendo abrasioni sulla pelle, fino a lasciarlo completamente nudo.
Lo buttano sotto il getto di acqua gelata tenendolo fermo mentre si divincola.
-Ecco la doccia, negro di merda!- gridano fra le risate.
Sonny dà un paio di calci, a vuoto.
L'unico colpo che giunge a scontrarsi con qualcosa sembra nullo, come nebbia su un vetro.
Ridicolo.
Ridicolmente impotente.
Ridicolmente umiliante.
E mille spine sulla sua nuca infiammata.
È quanto basta, perlomeno per una piccola rivalsa.
Raccogliere le forze e aspettare il momento giusto.
Una voce nella nebbia in cui Sonny sente di essere immerso: -Non è mica brutto questo figlio di puttana...-
-Un bel culo sodo, sì.- soggiunge un altro.
Le voci sono ovattate e lontane, come i passi dei quattro che gli stanno girando intorno.
Sonny si volta, gli occhi ancora socchiusi.
Li vuole vedere bene, i figli di puttana.
Bene per fargli bene tutto il male possibile.
Interviene Pickett, quello che generalmente sta più in disparte: -Se continuate a pestare questo nero andremo nei casini. Poi succede come l'altra volta...-
-Sta zitto, segaiolo!- gli grida Meyers. -Ora ci divertiamo un po' e poi lo riportiamo in cella! Non ti metterai mica a rompere i coglioni come Reynolds?-
-Quello sfigato scopa solo col regolamento.- interviene Lewinsky. Poi dà un'altra lunga occhiata al ragazzo riverso.
-… Perché… Non mi fate fottere… Da vostra figlia?- pronuncia Sonny, biascicando.
Il sangue gli cola da naso e zigomo, un lieve sorriso sardonico coperto dalla scia rossa.
Se deve farsi male, che ne valga la pena.
Un calcio nelle costole gli strappa un gemito di dolore. -Sta zitto, figlio di puttana.- ringhia Meyers. -Stai solo peggiorando la tua posizione.-
Poi si volta e si mette a discutere con gli altri. Parlano a bassa voce, ma Sonny percepisce su tutte due parole: “negro” e “culo”.
Sente mani robuste che lo afferrano, lo sollevano e lo trascinano.
Viene portato fuori dalla doccia, nella stanza attigua, e viene buttato a pancia sotto su un tavolo. Di nuovo, le manette gli impediscono di attutire l'urto.
China il viso, il mento dolorante, guardando dietro di sé Lewinsky che gli si avvicina. -Io un paio di botte gliele do, ragazzi.- dice con una risatina nervosa. Poi si cala i pantaloni.
E Sonny chiude gli occhi, una frazione di secondo, il tempo di prendere l'attimo giusto.
Dopotutto, è il gesto che conta.
E concentra tutte le forze nella gamba destra, un unico colpo diretto all'inguine di quello stronzo pelato.
Colpisce Lewinsky alla coscia, con sufficiente potenza da fargli perdere l'equilibrio. Con i pantaloni calati non riesce a muoversi rapidamente ed evita la caduta solo perché van Kempen è dietro di lui.
-Figlio di una troia!- grida massaggiandosi la parte colpita.
Sonny, i denti serrati per contenere il panico, curva gli angoli della bocca in un sorriso.
Sorride per poco, però, perché la mano pesante di Meyers gli cala sulla nuca con violenza. -Non peggiorare la tua posizione, ho detto, negro del cazzo!- sbraita l’agente, serrando la mascella.
La guancia premuta sul tavolo, una bestemmia gridata in silenzio gli morde la carne.
Sente le mani dello sbirro afferragli i fianchi con forza. -Apri quelle chiappette, bello...-
Fottiti.
Il pensiero gli fa contrarre tutti i muscoli.
Lewinsky nota la contrazione, e ciò gli suscita una breve risata. -Ti piace farlo a secco, eh? Rottinculo d'un negro.-
Glielo appoggia sulla stretta apertura e comincia a spingere.
Sonny tende le gambe.
Comincia a scalciare.
Non c'è intento di colpire, è la reazione cieca.
Non quello.
Non quello stronzo pelato e lui schiacciato sul tavolo.
-Cazzo, Meyers, fallo stare fermo!- sbraita Lewinsky continuando a spingere. Lo sfintere sta cedendo e la cappella già si fa strada nello stretto canale.
Van Kempen afferra una gamba di Sonny, impedendogli di muoverla.
-Non sfondarlo troppo.- dice a Lewinsky. -Dopo la puttana tocca a me.-
-Non esagerate con quel nero.- dice Pickett in disparte e a disagio.
-Dovete fottervi!!!- urla Sonny alzando il viso, e la frase ricade in uno spasmo.
È troppo.
Al di là di ogni fottuto sbirro, quella cosa è troppo.
Ma ormai l'intruso è passato, e per quanta resistenza possa opporre, otterrà solo di farsi più male.
Prova a rilassarsi, per una volta a evitare ogni resistenza.
Ma è tutto rosso nella sua vista.
Non sente altro che un dolore lancinante serrargli le natiche e risalire lungo la spina dorsale.
L'altro dietro di lui lo pompa brutalmente, grugnendo come un porco ogni volta che si spinge dentro. Le mani scivolano dai fianchi alle spalle, alle quali si aggrappa per penetrarlo ancora più a fondo.
-Ti piace, troia?- ansima tra una spinta e l'altra.
Le parole si bloccano in gola.
Lì, alla base, dove Sonny sta sentendo il suo intestino premere.
Ogni volta che Lewinsky esce prende un respiro, senza fiato, e l'aria diventa altro attrito bruciante.
Per fortuna dura poco. Alcuni minuti e Lewinsky gli viene dentro con un grido animalesco. Rimane ancora qualche attimo dentro di lui ansimando, poi si sfila con un gesto secco, seguito da un rivolo di sangue e sperma.
-Sotto a chi tocca.- ghigna il pelato.
Sonny si volta su un fianco con uno scatto.
Non ha senso, lo sa.
Ma non ci sono opzioni migliori.
Un altro pugno di Meyers lo colpisce come un maglio, facendogli per un attimo danzare delle farfalle bianche davanti agli occhi.
-Sta fermo, negro del cazzo!-
La testa cade, di nuovo, sul tavolo, il naso rotto percosso dal colpo.
Istintivamente, la priorità è coprirlo.
Strattona le manette, spingendo la fronte sul legno sperando di poter coprire tutte le altre fitte con la pressione.
Lewinsky si pulisce alla meglio con un fazzoletto di carta, poi si rivolge agli altri: -Qualcuno vuole approfittare? La puttana è ancora calda.-
Si fa avanti van Kempen. Non che gli interessi particolarmente avere rapporti sessuali con un detenuto di colore, se non per il concetto di umiliazione insito nel gesto.
Sonny sentendo i passi si puntella con la testa, cercando di scivolare in avanti.
-Ma dove vuoi scappare, negretto?- gli dice van Kempen beffardo. Poi rivolto a Meyers: -Tienimelo fermo, glielo sbatto dentro tutto in una volta.-
E infatti lo penetra brutalmente, con un movimento che porta il suo inguine a contatto con le natiche di Sonny.
Un altro gemito, la gola rotta.
Il dolore infiamma il fiato, il fiato si consuma tra i denti bruciando per tutto il corpo.
-Figlio di…- riesce ad articolare a fatica Sonny, ogni lettera risveglia la sensibilità.
Smetterà, quel figlio di puttana smetterà.
Van Kempen si prende il suo tempo.
Purtroppo per Sonny non viene in fretta come l'altro.
Gli sbatte dentro l'uccello per un tempo che al ragazzo pare infinito. Viene piegato su di lui, stringendogli i fianchi tra le dita contratte. Infine si rialza ansimando.
-Meyers?-
-No, ragazzi. La puttana comincia ad essere troppo usata per i miei gusti.-
La puttana comincia a scivolare giù dal tavolo, le gambe cedute.
Interviene Pickett, guardando il ragazzo sul tavolo, immobile ad occhi chiusi. -Ragazzi, portiamolo in cella prima che succeda un casino.- dice.
-Ehy, Sam, cosa vuoi che succeda? Tanto lo sa che deve stare zitto.- ribatte Lewinsky.
Sonny cade, del tutto. Il mento sbatte contro il bordo del tavolo.
Si vede la contrazione delle sue spalle involontaria.
E inutile.
-Cristo,- dice Meyers. -forse è meglio riportarlo in cella.-
Sonny, rispondendo alle loro domande, comincia a respirare in modo affannoso e irregolare.
-Dammi una mano, van Kempen.- dice Meyers e afferra Sonny per un braccio. Gli piace pestare i sospettati, ma sa bene che non deve esagerare, altrimenti il giochetto può rivoltarglisi contro. Soprattutto con quel rompicoglioni di Reynolds in giro.
-… dei figli… di troia… Siete dei figli di troia…- emette Sonny. Inverosimile, quasi svenuto, la voce non sembra neppure venire dalle sue labbra sporche di sangue.
Una goccia rossa sporca il pavimento.
Meyers comincia a trascinarlo. -Sta un po' zitto, negro.- ringhia.
Lo sbattono nuovamente in cella, gli buttano dietro i suoi vestiti. Liberandolo delle manette, Pickett gli dice: -Rivestiti, forza.-
Sonny flette le dita. Le muove sul pavimento, finché non incontrano la stoffa.
La tira verso di sé.
Si copre con la maglietta, passandosi la camicia strappata sul viso per pulirsi.
Il sangue secco rappreso nelle narici, le labbra socchiuse (la fottuta ferita si è riaperta anche lì), si puntella su un gomito per sollevare il torace.
La pelle, tira.
Ovunque.
Deve solo trovare i boxer.
-Negro di merda.- dice Meyers guardandolo sprezzante.
-E ricorda, stronzetto: sei caduto dalle scale.- aggiunge Lewinsky.
Poi escono. La stanza rimane vuota.
Lentamente, a scatti, Sonny rimette ogni vestito.
Sono stracci, ma lo coprono.
Sì, caduto dalle scale.
Ossia: quel che è successo riguarderà lui e solo lui.
E quei figli di puttana quando sarà il momento.





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