-Qualche giorno.- ha detto Yvonne. -Qualche giorno e vorrà vederti.-
È da cinque giorni che non rivedo Moony.
È da cinque notti che dormo in albergo.
È da 120 ore, più o meno, che il tempo e il mondo sono concetti relativi.
Perché il giorno è giorno e la notte è notte?
Perché si vive di giorno e si dorme di notte?
Ritmi umani. La luce solare, i pianeti, bioritmi, cose così.
E allora perché l’umanità si costruisce una vita notturna? E perché quando mi sveglio alle 15:00 del pomeriggio, come dice la sveglia incassata nel comodino del Capucines, penso che mi sono perso qualcosa?
Perché mentre parlo con Serge a questa festa privata alle 23:00 di sera penso che potrei/dovrei essere a letto a dormire?
Da solo?
Sto cercando di allontanare la clientela.
Mi attacco a Serge come una cozza si attacca allo scoglio, e il mio radar manda:

-Momentaneamente occupato-


Da un’ora e mezza.
Tutti quanti questa sera mi tradiscono.
Conrad corteggia una trentenne dall’aria spaesata, il vestitino di raso rosa e unghie lunghe di ceramica lilla. Non so chi sia, so che è nuova dell’ambiente, non mi interessa.
Mon sta cercando di convincere il signor Longret a prendere me e lei assieme. Come fratellini ci pagano il doppio, e il lavoro è la metà.
Thérèse si sta facendo corteggiare dalla signora Ibrelisle, quarantadue anni, sposata da quindici con uno dei maggiori commercialisti parigini. È rinomatamene lesbica dalla nascita. E il marito è rinomatamente un uomo affascinante. Voi li capite?
Parlo a Serge della decadenza della società contemporanea, che equivale a parlare del tempo.
Lui annuisce, e guarda la clientela diffusa nella villa liberty come se sapesse di tutti i loro altarini e si dispiacesse di non poterli condividere con qualcuno. Quindi me li distilla in suggerimenti.
-Guarda la cravatta di Pachaud, che è appena uscito dal bagno.-
-Cosa?-
-Guarda…-
-È bagnata sulla punta. Perché?-
-A un certo punto della serata, quando è con suo fratello, si allenta la cravatta e toglie il fermacravatta. Subito dopo va in bagno e si sciacqua le mani, e gli cade la cravatta nel lavandino. Quindi?-
-Quindi quando Pachaud ha la cravatta bagnata significa che è nervoso, così tanto nervoso da dover allentare la cravatta, quindi toglie il fermacravatta, e poi la cravatta scivola nel lavandino e si bagna. Non è che hai un’altra riga? Mi sto addormentando.-
-Togliamoci da qui.-
Le ville liberty dei ricconi hanno le stanze di nessuno.
Questa, ad esempio, due divanetti, una lampada art nouveau e una porta a vetri che dà sul terrazzo; in proporzione con la casa è uno sgabuzzino.
Perlomeno se ci trovi dentro qualcuno sai che non vuole essere disturbato…
Mentre ci sediamo e io scopro che la morbidezza dei divanetti era tutta una finzione, Serge distilla un’altra goccia.
-Se nelle tasche di un parigino trovi un portasigarette ci sono due possibilità: o è ricco e ha più di 55 anni o è cocainomane.-
Io prendo lo specchietto di Priscille, firmato YVS su tutti e sei i lati, mentre lui scuote una bustina.
Almeno, con lui, sai che è roba buona.
Non ne prenderei da sconosciuti.
E queste sono le giustificazioni-scalini con cui ti costruisci il cammino.
Fa lui, con gesti abitudinari.
-Cosa stai facendo questa sera?-
Per affilare la riga usa questo accendino piatto e largo, su cui è serigrafata una lametta.
-Cioè?-
Finge di concentrarsi sullo specchietto. Mi ha dimostrato di saper fare una riga perfetta anche in una stanza buia. E ora finge sinceramente di concentrarsi sulla cocaina per ignorare me.
-Cioè, quando ti stacchi da me e cominci a lavorare?-
Mai, possibilmente.
Mai, mai, mai.
-Tournassat ti sta ancora aspettando.-
-Chi?!-
Rewind.
Repeat:
Tournassat, ti sta ancora aspettando.
Tournassat?
Scivola sillabato sulla mia lingua e sfuma infido sulla “a” finale.
A volte nella veglia ti capita di sognare.
Per due o tre secondi la tua vita diventa quel che è, un’equazione contorta, e i numeri si mescolano con le incognite.
Serge pronuncia un nome che non hai mai sentito pronunciare, ma che ti sei fissato in testa leggendo il diario di tua madre defunta.
Sillabazione silente dopo sillabazione silente, e cazzo se ti ricordi come quella “a” si mesceva al tuo dubbio.
-Tournassat.- mi ripete risponde perplesso Serge, e mi guarda bene in faccia.
Sarà la coca, starà pensando, forse è meglio se questa riga non gliela do.
E io guardo la riga.
E lui mi guarda e si convince che non deve darmela.
-Tournassat come?- chiedo, e vaffanculo la riga.
-Tournassat Armand.- risponde lui, e starebbe per chiedermi: “Tutto bene?”
-Lo conosci?-
-No.-
No, mai.
Tournassat Business Armand?
Io? No, assolutamente.
Solo che, quando me l’hai nominato, ho avuto questa chiara immagine della parolina “Business” scritta in alto a sinistra di quel grazioso Cuore ammuffito, e sotto le sue due iniziali.
T.A.
Tournassat Business Armand no, non l’ho mai sentito.
-Lo conosci?-
-Non l’ho mai conosciuto.-
I suoi occhi neri immobili su di me.
-L’ho già sentito ma non l’ho mai conosciuto.-
-Probabile che tu l’abbia già sentito, è da due ore che siete nella stessa stanza…- dice lui, e mette via l’accendino lametta.
La riga è lì, intoccabile.
Di Tournassat Armand ce ne sono tanti… Magari quello del diario di Yveline ora vive in Australia.
Però…
-L’hai sentito nominare prima di questa sera?-
-Non lo so, forse…-
-Ne hai sentito parlare male?-
-Non lo so, non ricordo, so che l’ho già sentito…-
-In quale occasione per reagire così?-
Scuoto la testa.
La riga di coca è lì, mi guarda e mi dice:
-Tu sei la droga!-
E io alzo le spalle impotente.

Armand Tournassat ha quarantotto anni, un doppiopetto Versace canna-di-fucile che racchiude un corpo una volta tonico; dai muscoli ora afflosciati si intuisce il vigore di un tempo.
Di un tempo.
Com’era diciassette anni fa?
Ha i capelli tinti di nero, e folte sopracciglia nere. Occhio sveglio, diritto, naso forte, ombra di una barba folta.
Come poteva verosimilmente essere diciassette anni fa quest’uomo per comparire sulla lista nera di mia madre?
Ha dei gemelli minimalisti di platino, un anello d’oro troppo sottile per essere una fede nuziale.
-Guardi il mio anello?- mi chiede. Ha le mani sul volante di cuoio, retrò, e ticchetta un ritmo sconosciuto. Dove vuole che guardi?
-No, mi ero distratto. Mi scusi.-
-Dammi del tu.-
Ha una voce giovane, mancante del tono saccente che dovrebbe sottolineare i nostri 29 anni di differenza. Non lo fa, e non mi tratta neanche come un figlio, alternativa plausibile, solita dei clienti vicini all’andropausa. Non è imbarazzato, non è frettoloso.
Si sente a posto.
-Posso chiederti che lavoro fai?-
Non potrei. È una cosa a metà tra una regola e un consiglio. Ai clienti certo non fa piacere sentirsi rivolgere domande sulla vita diurna.
Emette un risolino tra i denti.
-Azionista.-
Business.
Potrei ricontrollare sul diario, quando mai tornerò a casa, ma non ce n’è bisogno. È stampato a chiare lettere sul mio cervello.
Business Business Business.
Mai una parola inglese ha attecchito così ostinatamente sulle mie sinapsi.
-Posso farti una domanda io, adesso?-
-Sì…-
-Perché fai questo lavoro? Ti piace?-
È ovvio che mi converrebbe rispondere di sì. Troppo ovvio. Anche se non ci crede nessuno.
-No. Lo faccio per soldi. Credo ci siano lavori peggiori.-
Schiocca la lingua e solleva il viso, inarcando un sopracciglio.
-Tocca a te, adesso.- dice. Mi indica il vano che ho davanti.
-Cosa?- chiedo, e infilo la mano nel vano buio. Il pacchetto di sigarette ancora sigillato è in un angolo, e sul dorso della mano sento anche il peso un accendino.
-Un’altra domanda.-
Gli passo una di queste sigarette nere con puntini bianchi, come quelle di Giacca Rossa. Hanno un nome greco, con squadrate lettere greche argentate. Incomprensibili.
Domanda. Qualcosa tipo: ti dice niente il nome Yveline Trastet?
Oh certo! Adesso ti spiego tutto…

Ahah, sarebbe bello.
Devo tenermelo buono. Conoscere la sua casa e le sue abitudini. Farmelo cliente fisso.
-Cos’hai pensato quando mi hai visto, Armand?-
Risatina tra i denti.
-Mi accendi la sigaretta?- mi chiede, e io gliela accendo. –Che ho pensato… Che dovrei andare alle feste di Assemat più spesso. E tu, cosa hai pensato?-
-Che non eri un cliente.-
-Io non sono un cliente, di norma.-
-Questa sera è l’eccezione?-
-Sì.-
Dice la verità.
Strano.
Mi sarei aspettato l’ennesimo vecchio bavoso elegante.
Forse Armand ha capito come sfruttare l’incredibile fascino dei soldi.
-Ben due complimenti…-
-Sei qui per essere corteggiato.-
Mi mette una mano sulla coscia, più o meno come se fossi sua moglie e stessimo tornando a casa dopo una gita in campagna.
Tutto bene, tesoro?
Stronzo, leva la mano dalla coscia di mia madre.
-Cosa pensano tua madre e tuo padre del lavoro che fai?-
Stilettata tra le costole. La sua mano diventa ghiaccio coperto di cartavetro e pesa come piombo.
Mi lancia un’occhiata, e sorride dispiaciuto. A questo punto dovrebbe dire: scusa, ho fatto la domanda sbagliata. Invece sta zitto e prende la sigaretta dalla mia mano.
-Mia madre è morta, mio padre anche.-
Posso sforzarmi quanto voglio, ma mi ha fregato. Schiacciato sul selciato, ruota posteriore – Buono e sta a cuccia.
-Quando?- mi chiede, e non è più l’uomo dei risolini tra i denti.
La sua mano è ferma sulla mia gamba. Le dita si stringono, sembra un gesto consolatorio – Sono qua, tesoro, vicino a te.
Leva quella cazzo di mano dalla mia coscia e da quella di mia madre.
-Due mesi fa.-
-Ti va di parlarne?-
No, mi hai preso per una puttanella di strada? Qualche moina e tu diventi il mio protettore?
-Preferisco di no.-




Vai al capitolo


INDICE CAPITOLI