-Va bene…-
È la risposta perplessa di Moony alla mia esclamazione (perché è stata un’esclamazione):
-Dovrei parlarti… Di una cosa… Importante.-
Un’esclamazione a singhiozzi.
Lei è seduta sul suo letto a intrecciare fili colorati. Fabbricare braccialetti di trecce di cotone fatte di trecce di cotone. Fa un nodo alla sua opera incompleta e l’appoggia sul comodino.
Dio, ho paura.
Ho paura che tutto possa dileguarsi in un istante, che le leggi della fisica e della logica si fottano facendo svanire Moony, come un film che parte in forward fino all’effetto neve a fine pellicola.
Proprio così. Interferenza, e non c’è più. E tutto quello che ho fatto finora diventa scontrini da cestinare e inghiottire amaramente.
Mi siedo davanti alla mia sorellina, e non oso togliermi le scarpe. Se Moony a un tratto corresse via mi troverei a inseguirla a piedi nudi. Anche se lei è in maglietta e mutande, e c’è una possibilità su cento che si metta a correre per strada mezza nuda…
Ma non si sa mai.
-Voglio parlarti del mio lavoro.- le dico, e lei mi sorride incoraggiante.
No, hai frainteso, non ho finalmente deciso di portarti con me in discoteca. Non ci lavoro, in discoteca.
-Voglio scusarmi. Ti ho mentito.-
-Mi hai mentito?-
-Sì.-
La sua faccia dice: stupore, inconcepibile – Ma ne sei veramente in grado, Ed? In grado di mentirmi?
Chiederei comprensione.
Ma alla fine del discorso sarò io a dover comprendere lei.
-Ti ho mentito sul mio lavoro. Non faccio l’animatore, e neanche lo scaricatore…-
Ecco la liberazione che scivola dalle mie labbra.
-Non ho mai fatto quei lavori. Un mese fa mi ha avvicinato un uomo e mi ha proposto di lavorare per lui… Quell’uomo in giacca rossa che era venuto a casa.-
È meglio di un orgasmo, e mentre dico le parole su cui ho riflettuto per giorni fisso il braccialetto sul comodino.
-Io all’inizio ho rifiutato perché mi faceva schifo, ma poi è arrivata la lista di debiti e ci ho ripensato…-
Questo braccialetto di minuziosa precisione che le avrà occupato ore di concentrazione.
Eccomi, sto per dirlo.
Ecco, sta per venire.
-E che lavoro ti ha proposto?-
Ecco, sto fissando Moony. La sua voce incrinata rimbomba nel mio cartaceo stomaco vuoto.
Ecco, ho sbagliato tutto.
Moony non è mai stata una stronza, non ha mai fatto nulla d’ingiusto, sono io che ho sbagliato tutto.
Sono io che devo espiare per tutte le volte in cui l’ho ignorata, stuzzicata, zittita, offesa.
Mea culpa a vita.
-Che lavoro, Ed?-
Ha la testa inclinata e mi supplica. I suoi occhi non erano così grandi prima, non erano così azzurri.
Dio, ho paura, perché sto per uccidere mia sorella.
La mia unica fonte di bene, felicità, speranza.
-Ed!-
-La puttana!-
Ha le mani artigliate sulle mie braccia. La testa reclinata verso l’alto per guardarmi, un occhio che le trema.
Dio, ho sbagliato tutto.
Fammi tornare indietro di cinque minuti e farò voto di tacere questo segreto a vita.
Solo cinque minuti.
-La puttana…?-
Perché sembri non capire, Moony? Perché mi guardi come se dovessi spiegarti cos’è una puttana? Non lo so già abbastanza?
-Sì. La prostituzione.-
-Fai sesso con la gente? Per soldi?-
-Moony, mi fai male.-
-Dimmelo.-
-Sì. Soldi. Per sesso.-
Perché sono tornato vergine e immaturo? Perché ho paura e voglio piangere quando dovrei mostrarmi forte per sorreggerla?
La mia sorellina non è mai stata così brutta, deformata in volto da dolore-sconcerto-disillusione.
Non è mai stata così bella, come le cose che ti sfuggono di mano.
-Raccontamelo.-
È ancora artigliata alle mie braccia, le gambe incrociate, la schiena inarcata che la costringe a guardarmi dal basso.
-Ok. Te lo racconto.-
E le racconto Giacca Rossa, e Serge.
-E un terzo sempre a lui, il resto a me. Se ti mentivo dicendoti che facevo l’animatore è perché lavoro di sera, di solito.-
-Ma fai sesso con i clienti?-
Moony, vuoi i particolari per capirlo?
Mi guarda tra le gambe. Senza pudore china il viso verso il mio pube, verso le pieghe dei Levi’s.
-Cioè, tu lo infili nelle donne e poi ti pagano?-
Perché questa doviziosa morbosità.
-Sì, Moony.-
Non poteva fregartene di meno di me? Non potevi volermi meno bene?
-Ma…-
Stavo per dirlo.
Ma non mi piace.
Fottiti, Edward, sei un ipocrita.
Fottiti, diglielo che martedì dopo aver litigato con lei sei andato a farti consolare dal tuo caro Serge.
Fottiti fottiti fottiti.
-Ed…-
Mi chiama la mia sorellina con la voce di Yveline, la testa ancora china sul mio pube. Ma so che non sta guardando più nulla. Sento anche il rumore della sua lacrima che si sfracella sulla mia cintura.
-Per favore, vattene da questa casa.-
Sillabazione di Moony-Yveline.
Mamma, sei morta, e io mi sono dissanguato disseccato per dare la felicità a mia sorella e adesso lei si appella a te.
Alla tua maledetta voce dal tono calmo e insindacabile che contraddire è impossibile, sacrilegio!
Hai fatto aprire le mani alla mia Moony, le hai fatto dire di andarmene, mi hai intimato di uscire da casa nostra.
E io lo sto facendo.
Mi sto alzando dal letto e sto andando verso la porta.
Sto percorrendo il corridoio per i due metri che lo separano dall’ingresso.
Sto prendendo la mia giacca che non è mia con dentro tre cose e uno sputo.
Sto uscendo e chiudendo la porta senza voltarmi, lasciando mia sorella infranta in balia del nulla, intimando in un messaggio con il tuo stesso maledetto tono insindacabile che Mat deve assolutamente subito muovere il culo e raggiungere Moony e consolarla e aiutarla.
Sto pensando, mamma, che potevi evitare di crepare con una figlia minorenne e un figlio inetto e vile.
Potevi anche evitare di infondere tutto quell’amore nella scopata che ti sei fatta con mio padre, non ne valeva la pena, era meglio se ti davi al volontariato.
Potevi evitarmi tutto questo.
La prossima volta uccidimi nella culla.


Ti trovi in una stanza d’albergo lacera di accoppiamenti sterili e dovresti anche trovare una motivazione plausibile per essere felice.
Ti trovi con una puttanella che lavora con camionisti unticci e mariti infedeli da quattro soldi da quando ha sedici anni, che è felice quando il cliente ha meno di trentacinque anni, che trova un lusso potersi finalmente permettere un letto per farsi sbattere, anziché rompersi le collant sul freno a mano di qualche Peugeot.
Thérèse, dammi grazia.
Non le voglio le tue unghie di ceramica tra i capelli. Non voglio il tuo ombretto lilla sulla fronte, né sentire la puzza del tuo profumo a ogni respiro che faccio.
Non voglio l’amore e la comprensione di una che può ritenersi fortunata perché non è ancora sieropositiva. Non voglio la tenerezza di una che si sente casta solo perché non le piace dare il culo ai colleghi.
Vattene, per favore.
Mi ricordi solo quanto io e te facciamo schifo, quanto siano illusorie le puttanate sulla rispettabilità della prostituzione, sulla dignità delle Geisha, sul fatto che è il lavoro più vecchio del mondo.
Dio mi ha detto a cosa serve questo lavoro.
A farci vedere quanto fa schifo il mondo.
Anche lui è nostro cliente, ma non ci paga, ed esige che ci inchiniamo ad ascoltarlo mentre confessa che ha sbagliato tutto ma non osa fare una conferenza ufficiale.
Tanto lo so che sei qui solo perché assomiglio al tuo principe azzurro.
Cerchi di aiutarmi solo per dimostrarti che questo lavoro duro perlomeno ti rende più sensibile, e non ti rendi conto che a furia di farti sbattere non sei più in grado di vivere senza sentirti sola se non hai un cazzo in corpo.
Anche tu hai chiesto venia a Dio, e ha riso in faccia anche a te.
Ho sentito le parole che ti scambiavi con Priscille. Che brutta faccia avevo, sembravo sull’orlo dello svenimento, ti ho fatto preoccupare, dovevi assolutamente aiutarmi.
Assolutamente dovevi seguirmi in camera e appoggiare il tuo mento appuntito alla mia nuca, dirmi che se voglio ci sei, nausearmi di comprensione.
Assolutamente dovevi opprimermi con la tua benevolenza, vero?
Dirmi che non ci sono problemi se voglio stare zitto, e vaffanculo i problemi ci sono perché non riesco neanche a dirti di sparire dalla mia vista.
Mi vuoi così bene, Thérèse?
Stroncami con dieci dosi di morfina.

Il tempo non esiste.
Infatti io sono a quando ho sedici anni, nella camera mia e di Moony, è notte, fingo di leggere e la guardo dormire.
Sono un sedicenne testa di cazzo, un po’ più bravo ragazzo dei suoi coetanei, meno drogato e più perfezionista, e troppo educato a voler bene a sua sorella.
Lei non sarà di nessuno, penso io.
Quando saremo vecchi, avremo figli, marito e moglie, comunque io sarò la persona più importante per lei.
Quello a cui chiedere aiuto.
Quello che ti ha aiutata a farsi la prima ceretta alle gambe proprio oggi, dicendoti che era puro masochismo, e intanto ti teneva la mano. Ed era dispiaciuto, veramente dispiaciuto di vedere le tue smorfie doloranti, e ti diceva che eri una cretina a farti tutto questo male solo per farti bella.
È che sei bella comunque.
Non lo so se è colpa della mamma o se è colpa mia, ma ti voglio bene veramente, e quando sento Matthias o Gerard inveire contro le loro sorelle mi chiedo se stiano scherzando o se siano semplicemente molto più sfortunati di me. O fortunati. Perché per colpa tua non riesco mai a incazzarmi veramente quando mi fai sparire i CD, o quando dici alla mamma che mi sono preso la mia prima sbronza.
Appoggio il libro sul comodino e con immane lentezza mi districo dalle lenzuola. Appoggio i piedi sulla moquette e gattono verso il tuo letto temendo di vedere le tue palpebre sollevarsi.
Gattono, come un bambino, fino a pochi centimetri dal tuo viso.
Mi lancio, tenendoti una mano sulla bocca e ridendo dei tuoi occhi spalancati e spaventatissimi, del modo in cui mi guardi irata, dei tuoi sforzi per liberarti dalla mia presa.
E ti abbraccio.
Quando calma mi stringi la testa te lo dico, arrotolandomi i tuoi boccoli sull’indice.
-Cléa è una stronza. Oggi abbiamo litigato e lei si è fatta accompagnare a casa da Jérome.-
Sospiri dei mal di cuore di tuo fratello, sospiri lunghi e pazienti, e cominci a baciarmi la fronte.
-Smettila.- ti dico, e cerco di scostarti, ma tu ti ostini.
-Smettila!- ti ripeto, e tu non molli la presa.
-No, se ti riempio di baci non puoi più stare male!-
E finisce come al solito, con un oggetto che cade mentre ci divincoliamo e noi due che contemporaneamente facciamo “shhh” indicandoci il silenzio.
-Non si è svegliata…- mi sussurri mentre tendiamo le orecchie per sentire i passi della mamma, io mi volto e tu mi freghi baciandomi in pieno mento.
-Vedi? Siete tutte stronze, voi donne.- ti dico, e tu ridi.
-Gne gne gne.- mi fai, e mi tiri di peso sotto le coperte.
-Notte scemo.-
-Notte scema.-
Buonanotte.

Thérèse non è più sulla mia testa, quando mi sveglio, ma c’è ancora la notte. E non c’è Moony. Non c’è mia madre che dorme nella camera a fianco. Non c’è la sveglia puntata alle 7:00 e l’idea di dover andare a scuola.
C’è quella che chiamano Realtà, un impasto non omogeneo di ingredienti scaduti.
Dio, mi ascolti?
Io spero di no. Perché saresti una persona terribile, se ora mi ascoltassi senza fare nulla. Dovrei ucciderti, se tu fossi così insensibile.
C’è il tuo mondo, fuori dalla finestra.
Parigi, che è tua se tu esisti, questo agglomerato di anime che da millenni hanno speranza in te, che nonostante tutto continuano a costruire e figliare, che hanno il coraggio di pensare al futuro e vivere il presente.
Dio, hai un numero di telefono?
Il cellulare è ancora nella mia mano, un’attesa scaduta che Moony mi chiami. La luce si spegne tono dopo tono, e io mi dico:
Potrei fotografarmi adesso. Decidere che fare della mia vita guardando che faccia ho in questo momento. Consolarmi all’idea che non avrò mai una faccia peggiore.
Piango, e il mio cellulare mi guarda.
Questo insensibile costrutto riesce a non fiatare, a non contorcersi, ha la faccia tosta di mantenere il suo obiettivo su di me.
Piango come quando ero bambino, con le lacrime calde che mi entrano nel naso e i denti che tremano. Adesso ricordo cosa significa avere cinque anni. Soffrire immensamente ed essere totalmente impotenti sulla propria sofferenza. Fioccare lacrime e ingoiarle per non macchiare il cuscino.
Contrarre tutti i muscoli perché è ingiusto, e ingiusto, e ingiusto, ma come convincere Dio?
Ho una mano sulla spalla, e non è la mia.
Tiepida e ruvida si è appoggiata su di me senza che me ne accorgessi, e ora rispettosamente immobile attende.
Mortale, chi sei tu che osi ascoltare il mio pianto?
Perché il mio magnaccia è l’unica persona che mi sta consolando?
Perché lo abbraccio come se fosse mia madre, mia sorella, come se fosse il mio amante e il mio prete, e piango come mai ho pianto in tutta la mia vita?
E glielo dico, ora che mia madre è Dio, e Dio è mia madre, e il mio magnaccia è mia madre che è Dio; gli travaso tutta la lacerazione atto dopo atto, contravvengo alla sacra regola di non unire personale e lavoro, mostro umano e la mia fragilità.
Mia sorella mi ha cacciato di casa.
Mia sorella sorella sorella.
La persona per cui mi hai fatto spedire infiocchettato nel tuo letto, quel bene senza prezzo grazie a cui ho imparato a fare tutto quello che non volevo fare.
Quella piccola, immensa e insostituibile cosa che dava un senso a tutto quello che Dio, nella sua infinita malvagia bontà, ha voluto mostrarmi delle sue feci.
E io ora sono un escremento solitario.
Ho scoperto passo dopo passo che non son integro quanto avrei dovuto voluto essere, perché a furia di sondare ed elencare archiviare i difetti della gente che mi pagava i vestiti costosi, mi sono trovato con le spalle al muro, con una mano a tenermi per il collo e l’altra a vivisezionarmi, costretto ad ammettere che per sillogismo aristotelico loro sono umani e io sono umano, loro sono il male e io sono il male.
I miei polmoni sono marci.
Il mio cuore pompa dalle vene alle arterie.
L’intestino è il mio cervello.
Non li volevo i loro segreti, le loro confessioni, i loro rimpianti.
Non volevo un’overdose di peccati umani, errori mortali e mortificabili, non volevo le loro ammissioni di colpevolezza ed essere giudice loro e di me stesso. Dell’umanità intera che, ogni volta che un cliente mi bisbiglia cosa ha sempre desiderato, mi obbliga a scoprire che io posso darglielo.
Tutto.
Tutto quel che volete.
Io sono il giovane masochista che vuole farsi umiliare, il ladro sadico che entra dalle loro finestre e li lega al lavandino, il giovane lord che cerca un signor Dantec per farsi un maestro di perversione, il ragazzo di strada che s’innamora di gratitudine della signora Ichac.
Come posso spiegare a Monique che io di mestiere somministro purghe ai desideri irrisolti? Che lavo le natiche alle stesse persone che le insegnano latino e le fanno la piega?
Come posso spiegare a mia sorella come comprendermi senza costringerla a comprendere cos’è il Male, e che anche io sono quel Male?
Tieni, sorella mia, mangia il tuo pane quotidiano, guadagnato con le brutture del mondo in cui crescerai, diverrai adulta, cercherai la felicità.
Guardami, Serge, con la faccia schiacciata contro la tua clavicola che diseredo il mio orgoglio; guardami, e sai che Monique non potrebbe mai guardarmi e capire.
Non voglio il suo perdono, se per questo deve comprendermi.
Non capirà e non voglio che capisca.
Amen.




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