Sto facendo sesso con Mon, mentre Serge ci guarda.
Sto facendo sesso con Mon, e sento la sua figa stretta e risucchiante, un po’ secca, che si sfrega e si arrossa contro il mio pene.
Oramai ho un’immaginazione chirurgica, ed è il modo migliore per eccitarmi. Senza cercare la bellezza della persona, o la sensualità dei movimenti; senza sentire il suo profumo, o la sua puzza, ti concentri sull’esatta forma delle sue concavità.
Il profumo da puttana snob mi provoca lievi spasmi e una nausea persistente come un mal di testa.
È molto più efficace concentrarmi sull’atto, immaginare questo tunnel da illustrazione di Giger sormontato da un arco di grandi labbra glabre, rosa e pulsante, e il mio autotreno che entra ed esce, ancora confezionato, il lattice spruzzato di secrezioni.
In questo modo, mentre Serge ci guarda, posso offrire un’espressione concentrata, annaspante immersa nel lavorio costante e ripetitivo. Sono qua, sono qua, sono proprio qua.
Mon ansima, gli occhi sono due fessure che cercano in ogni modo di guardare altrove. Le piccole narici si dilatano e inspirano, la bocca si contrae come un sorriso da fotografia per agenzie di viaggi. Ogni tanto l’azzurro delle sue pupille si mostra, e lei mi guarda sdegnata e disgustata. Allora io la lecco come un cane, la mia lingua spalmata per intero sulla sua guancia sinistra mentre a lei è vietato di lamentarsi e deve fingere con il lato destro di godere sommessamente.
Serge ci guarda, seduto alla specchiera, un gomito poggiato al ripiano di marmo giallastro, con l’indice e il pollice a sorreggere il viso.
Serge è il regista.
Lo sguardo critico, attento, le orecchie tese, e tutta la serietà del suo volto è troppo. L’accurato distacco, il dovere professionale. È grottesco.
E intanto stantuffa, stantuffa, e con questo ritmo potremmo andare avanti per ore.
Mon, con la guancia sinistra umida, mi lancia uno sguardo esasperato. Quanto ci metti?
È che proprio non ci sto riuscendo. È lì, sulla punta del mio pene, ma non ne vuole sapere.
Cominciano a bruciarmi i polmoni, e mi manca il fiato. Sento il sudore grondare sulle gambe, inacidirsi sulla schiena, l’approccio scivoloso tra i miei fianchi e il ventre di Mon.
Sento il mio culo gelido, le natiche solidificarsi e staccarsi dalle ossa, e quando per l’ennesima volta la speranza scende dalla gola fino al ventre mi fisso sul braccialetto multicolore che ho al polso, e la speranza risale, l’orgasmo mi saluta di nuovo.
Penso a Mussa che è il ragazzo marocchino che sta sempre di guardia in piazza, e che mi saluta ogni volta che entro all’Istant, cercando di rifilarmi uno dei suoi perennemente fuori moda braccialetti di stoffa etnica.
Penso a lui che per una volta riesce a raggiungermi, mi sorride con grossi denti bianchi, con occhi come fessure sotto al sole.
Penso a lui che mi mette in mano questa treccia azzurra su cui si arrotola l’arcobaleno, mi saluta, e se ne va, e ancora non capisco se la sua sia elemosina o simpatia.
Al momento non aiuta il mio orgasmo.
Mon ha le guance infiammate, e le sue smorfie sono sempre meno celate.
Dai, su.
Ma non ce la faccio, cristo, oggi proprio non mi viene, e intanto Serge ci osserva e non sorride più.
Dai, su.
E gioco l’ultima carta sul mio pene ormai insensibile, insonne nel preservativo.
Stantuffa più forte, più forte.
Inarca la schiena e schiacciati contro il pube di Mon, contro il fondo di Mon, sollevale le natiche per premere contro il suo utero.
Dai, su.
Con i polmoni in fiamme, ho una sete pazzesca. Vorrei bere da una cascata, vorrei bere una cascata, acqua limpida a diluire un po’ di questo sudore.
Dai, su.
Ritmo più frenetico, o la va o la spacca. Se l’orgasmo scende sotto al ventre ce l’hai fatta, altrimenti alzati e accetta la ramanzina.
Dai, su.
Ed eccolo, che finalmente mi frusta il pube e sale per i testicoli, e tutto il calore del corpo si condensa.
Questo grumo di sperma che sta per schiantarsi.
Le ultime particelle liquide che ho.
Morte di gomma.
Ah…!


Ho cercato affannosamente un Cuore di Gesù Cristo, una lamina di ottone battuto a forma di cuore con decorazioni ramificate arzigogolate tutt’attorno, un busto d’angioletto in basso, una fiamma in alto; delle lettere che s’incontravano in mezzo, una A e una M dalle gambe ricurve, una I che divide entrambe.
Ho cercato nei ricordi quel gingillo ossidato che presenziava onnipresente sul comodino di mia madre, da che ricordo a prima che imparassi a leggere, finché non l’ho dimenticato, come Mat dimentica i suoi videogames e poi se li ritrova nei sogni a ventun anni.
Ho cercato per tre ore, profanando cassetti e ante, lanciando i vestiti di mia madre sul letto, rompendo pieghe fatte dalle sue mani morte, irriproducibili, dando all’etere l’odore della sua polvere.
Ho cercato fino a rendermi conto che quell’oggetto mi era stato nascosto, in un luogo fatto per non essere trovato, immaginato, in un luogo partorito appositamente dalla mente di Yveline.
Cioè: guarda sotto al materasso, dietro ai comodini, dietro ai cassetti, tra i documenti, sposta gli armadi, nell’intercapedine della finestra.
Guarda dove non sai più dove guardare, guarda temendo che ti passi sotto agli occhi e ricontrolla tutto, con l’immagine stampata sulla retina.
Cerchi una sovrapposizione.
Ad esempio: nelle fodere dei vestiti.
Ad esempio: cucito sul bustino del sontuoso abito da sposa, tra una stecca di balena e l’altra, che macchia con aloni verdastri la coppa di un seno.
E mentre cercavo con l’occhio i giusti fili da tagliare con le forbicine, temendo di disfare ore di sartoria artigianale, pensavo:
Mamma, ma sei stata tu?
Ma che cosa significa tutto questo? Che senso ha? Che senso gli hai dato?
Perché l’hai nascosto?
Eccolo tra le mie mani, il Sacro Cuore di Gesù Cristo, marrone-verdastro con graffiature che ne palesano l’originario materiale dorato, e dato che Moony è a cena da Yvonne avrò tutto il tempo di rimirarlo.
Girarlo, e per la prima volta, esattamente come è disegnato sul primo diario di mia madre, leggere sul retro sbiadito dell’oro invecchiato.
Person Presenting Itself as Commodity Allotment in a Business Doctrine.
M.V. – M.A. – M.M. – E.L. – O.F. – T.A. – C.A.
Iniziali corrispondenti sotto ogni parola.
Sfiorare i bordi interni secchi, troppo scuri per essere oro, troppo rossi per essere ruggine, troppo sangue per non essere sangue.
Potrei avere la conferma definitiva inumidendo l’indice e passandolo sui bordi, ma significherebbe violare un feticcio.
Perché questo è un feticcio.
Di una persona atea a scettica.
E così tanto madre da non poter pensare che del sangue scorre nelle sue vene.
Da non poter neanche concepire che si tagli per colorare del metallo, o magari usi il suo mestruo per coronare un rito pagano.
Se poi devi pensare che tua madre dormiva con del sangue secco accanto al cuscino l’intestino diventa il tuo cervello, e si srotola.
Soprattutto perché, ed è importante, questa persona ha fatto di tutto per farti credere che non sarebbe mai stata capace di cose simili.
Così irrazionali. O viscerali. O stupide.
Appoggio il diario sul cuscino, aperto sul disegno di questo Cuore che mi ha fatto tornare in mente quello reale, che stringo in mano.
La data: 15 marzo 1989.
Questo scarabocchio cuoresco fatto a matita, con una frase inglese arrotolata su sé stessa che dà della puttana e tante lettere-iniziali tutt’attorno.
Il 15 marzo 1989 Yveline era incinta di Monique.
Mi accarezzava la testa mentre io dicevo alla mia futura sorella che le avrei voluto bene se non mi avesse toccato i giocattoli.

Yveline…?


-Sì, ci ha detto: “Adesso andate fuori dal cazzo.”. Che stronzo…-
Nella voce di Thérèse c’è un dispiacere accettato, arrendevole, seguito da un lungo sospiro.
Poi i suoi occhi nocciola guardano verso l’alto, verso me ma oltre me, e un sorriso da prima volta le disegna le labbra.
-Si chiama “Cocco di Mamma”, bella mia, e i primi tempi sono sempre così…- dice Priscille con cinismo, e il suo lungo sospiro uccide tutta la tenerezza che Thérèse aveva diffuso. –Vedrai che passa anche a te quello sguardo da cerbiattina innamorata.-
Nella Suite del sabato pomeriggio, quella al Champs Elisées Plaza, Thérèse, la nostra cerbiattina occhi dolci, diciotto anni – Ne dimostro sedici -, ha la testa poggiata sulle mie gambe e passa il dito medio sulla piega dei miei pantaloni Chiffon.
Priscille – Tutto questo l’ho già passato - è seduta sulla poltrona bassa di pelle nera tiratissima, e fuma un sigaro mignon di cui non sento la puzza.
-Dovevi vederlo, Edward, con quegli occhi tristi e spenti…- continua Thérèse a descrivermi il suo sogno a occhi aperti. –Non pensavo che a Parigi potesse esistere un ragazzo così.-
Per la cronaca: ha fatto così anche quando sono arrivato io. Per questo non sono geloso, so che Thérèse mi adora troppo per rimpiazzarmi con un bel tenebroso.
Con lunghi e sottili capelli neri, un corpo da favola, e l’aria dell’eroe dannato senza redenzione.
Esattamente quella faccia lì, da eroinomane al lato della strada, ha precisato Priscille.
-Sempre così, la Mamma ci lascia gli scarti…- conclude Thérèse, e con l’ultimo sospiro del discorso affloscia la testa castano chiaro sulle mie ginocchia, e si fa accarezzare il collo.
La Mamma è, ovviamente, Serge, che ci gestisce come una vecchia battona gestirebbe un bordello vittoriano di Soho. I soprannomi non sono mai casuali.
-In effetti la professione del magnaccia è da valutare…- rilancia Priscille, e piega il suo corpo verso il frigobar cubo-nero, offrendomi una generosa porzione di coscia.
Una mignon di vodka tintinna sul vetro del tavolino già vuota prima che lei si volti. Non è alcoolismo, sono le operazioni. La carne lacerata e tesa che pulsa tra i muscoli. Le microlesioni e i lividi post-operatori. L’esfoliazione della pelle della schiena.
Questa sera Moony dorme da Yvonne, per questo non sono nervoso e guardo l’orologio a lancette senza numeri solo ora.
17:13:20.
Mi è venuta la malsana idea di parlarle della Suite. Non è stata una presa di posizione razionale, ma una fantasia.
Io che a cena, tra un discorso e l’altro, tra un canale e l’altro, le dico: “Sai, questo sabato dormo in un albergo, dove…”
E mentre la mente razionalizzava il pensiero irrazionale mi sono reso conto della lunghezza del monologo.
“Dove mi incontro con delle puttane e il magnaccia…”
“Perché faccio la puttana e…”
“Un lavoro serio, comprende anche la recitazione…”
“Ricordi quel pranzo al ristorante etiope? Ecco, era il pagamento di una certa…”
Ma la fantasia non mi ha mollato, no. È da stamattina che costruisco e ricamo quel discorso, aggiustando le virgole e la musicalità delle frasi, dove poggiare l’accento e la giusta intonazione.
Ad esempio: dirle che dalla mamma ho preso la bravura nella recitazione sarebbe d’effetto, ma non credo che Moony voglia essere stupita ulteriormente.
Dire “gigolo” o “puttana”? Dire “magnaccia” o presentarlo come “Serge”?
E per sdrammatizzare dovrei dire che “una sera potremmo uscire a bere qualcosa con i miei colleghi.”
Brivido freddo lungo la schiena.
Ecco il punto: io e Moony ci stiamo allontanando.
Immergendomi nella ricerca materna per risolvere il rapporto con Moony ho dimenticato Moony; pensando a come non farle scoprire le mie brutture l’ho lasciata sola in un angolo, un angolo in rue la Boétie, con Yvonne, e più Mat la rassicura più Monique sente di aver percepito bene.
Suo fratello sta volando via, via, via…
Come tutti quei discorsi sul tempo che passa, le cose che cambiano, l’inesorabile scorrere della vita, il saper accettare i cambiamenti, il saper pazientare all’infinito…
E raccontarle un’altra bugia per tappare l’ennesimo buco sarebbe l’ennesima controprova.
Forse a questo punto persino la verità le sembrerebbe l’ennesima bugia.
-Il Principino Azzurro sul pisello.- dice Priscille, e rieccoci al presente.
Lei e Thérèse mi guardano.
-Sulle nuvole?- mi chiede Priscille.
-No. All’inferno.- mi scappa.


In una camera della Suite, con il buio che regna e una striscia di luce rossastra che entra dal salotto illuminato, con le lenzuola riscaldate dal mio corpo e il cuscino morbido, profumo di biancheria pulita e della doccia che mi sono appena fatto.
La porta si sposta e la striscia di luce si allarga, tutto si oscura coperto da una sagoma e poi la linea torna sottile mentre passettini di tacchi di cuoio accennano un tip-tap silente sul parquet.
Mortale, chi sei tu che osi disturbare il mio sonno?
La sagoma prende consistenza, appoggiando il suo peso sul mio materasso, che s’inclina e io non sono più comodo come prima.
La sagoma ha un odore, non è semplicemente il babau venuto a darmi la buona notte, un profumo maschile spruzzato con parsimonia annebbiato da tutte le sigarette di un locale, e giurerei che sa anche di cera.
La sagoma si distende in tutta la sua lunghezza davanti a me, e io vedo un granello di luce scivolare sulla sua pupilla umida. Respiro il suo respiro caldo.
-Ciao.- mi dice la sagoma con voce maschile, giovane e rauca, che puzza di tutte le sigarette di cui sopra. –Io sono Jo.-
Jo, so che sei Jo, chi altro potevi essere?
-Posso vedere come sei fatto?- mi chiede Jo, senza cercare di risultarmi simpatico. Troppo sforzo, forse.
Mugugno, e potrebbe sembrare un oppure un no, dipende dall’inclinazione di chi mi ascolta.
Le due lampade a luce soffusa diffondono chiarore esponenzialmente, fino a fermarsi a una tonalità soft –atmosfera rilassata.
Ok, devo ammetterlo, è bello.
Non che io abbia sviluppato un vero buon metro di giudizio sulle bellezze maschili, ma l’acqua è bagnata, Mat sembra un cadavere e Jo è bello, e lo sarebbe ancor di più se non sembrasse un novello eroinomane.
Jo che mi guarda ha la pelle bianco-latte e qualche ciocca sfusa corvina che gli ricade sulla guancia.
Jo che mi guarda ha gli zigomi alti e gli occhi contornati da ciglia folte, lineari, come se fosse truccato.
Jo che mi guarda ha le labbra chiare sporte in avanti, un cuore allungato dal contorno netto.
Ha le narici piccole e il naso dritto che fanno vedere nelle sale chirurgiche, ha la mascella delicata su un collo sottile, così sottile che temi di spezzarglielo ancor prima di toccarlo. Baciarlo, ancor prima di baciarlo.
Ha le sopracciglia esattamente come Priscille mi ha spiegato devono essere le sopracciglia, cioè: trova il punto centrale orizzontalmente tra la fine della base del naso e l’inizio dell’occhio, e lì devono cominciare; collega immaginariamente la fine della base del naso con il limite esterno dell’occhio, e lungo questa linea devono finire, arcuandosi a due terzi della larghezza dell’occhio.
Così le ha chi va da un estetista, così le ha Jo che adesso le usa per concentrare lo sguardo su di me, creando due piccoli solchi verticali sulla fronte.
Jo che mi guarda non si preoccupa di risultarmi simpatico finché non ha finito l’ispezione, al termine della quale (e passano diversi secondi in cui ci fissiamo a vicenda come se fossimo davanti a uno specchio a cercare imperfezioni) alza gli angoli della bocca creando due deliziose (sto parlando come Thérèse) fossette ai lati.
-Tu sei Edward?- mi chiede, tonificando la voce di un’ottava, e il pomo d’adamo fa su e giù.
-Sì.- risponde la mia bocca impastata.
-Vuoi che spengo la luce?- mi chiede la sua bocca che non è fatta per parlare.
-No.- rispondo io. Voglio fissarti ancora un po’, e cominciare a preoccuparmi per i clienti che potresti fregarmi. O per Thérèse, che potresti fregarmi. O sulla mia nomina di Cocco di Mamma, che mi hai già fregato.
-Ok.- mi risponde, e si solleva sfilandosi la maglietta e dandomi le spalle si sfila anche i pantaloni, lanciandoli in un punto casuale della stanza in cui inciamperò domattina, prima che io possa fotografare il torace esile ma (che tu sia dannato) scultoreo.
Seguono le calze, e infine i boxer, mentre io conto le sue vertebre e mi chiedo se sia più ridicolo un uomo nudo o un uomo in slip, e anche i miei slip volano nella stanza.
Jo conclude lo strip fulmineo sollevando le lenzuola e sdraiandosi, e io non ho il tempo di sentire l’aria fredda sulle membra che già ho la sua pelle calda contro la mia e una mano sul culo.
E adesso?
Ho un’erezione pronta contro la sua coscia e sento la sua sul mio addome.
E adesso?
Siamo immobili. Totalmente fermi.
Inspirazione-espirazione del suo fiato caldo sulla mia fronte. Inspirazione-espirazione del mio fiato caldo sul suo collo.
E adesso?


Dunque, Yveline.
Cos’è?
Non mi importa se è un maleficio, una preghiera, un incantesimo o una fattura.
Cos’è questa parte rovente della tua vita? Questo lato da vedova rancorosa, questa lista di nomi premeditata, questa frase che dà della puttana a chi legge.
Cos’è?
Se tu fossi viva mi sentirei in diritto di farti una predica.
Certe cose non si fanno, vorrei dirti, cos’è questa roba? E indicarti disgustato questo feticcio a forma di cuore.
Cos’è questa volontà testarda di nasconderlo? Questo atto morboso, cucirlo dentro il tuo teatrale abito da sposa, questa eresia di usare del sangue?
È una macchia, te lo dico io, tuo figlio che adesso fa la puttana ed è estremamente sdegnato di scoprire con quanto zelo hai voluto nascondergli questa cosa. È una macchia come le macchie sulla coppa del reggiseno, che non se ne andranno mai più via, e chi le pulisce adesso?
Mamma, mi hai deluso.
Mi hai ferito e amareggiato.
Ho ribaltato la soffitta e respirato polvere stantia per trovare risposte, non un enigma da decifrare, non la tua cazzo di eredità irrisolta.
Non un’ulteriore complicazione.
Non i tuoi lati nascosti.
No.




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