La festa brulica.
Scintillanti e decorati, passeggiano per il locale e perdono un secondo di vita ad ogni passo.
-Vuoi?-
Mi chiede Giacca Rossa comparendomi alle spalle.
Quest’uomo è grasso. È madido della propria opulenza. La sua fronte è sempre imperlata di sudore, anche adesso, mentre sconta una piccola dose delle future pene che dovrà pagare per la dose che mi sta offrendo.
No, non lo voglio. E non devo neanche rispondere. A lui la cosa non importa. Se voglio prendo, altrimenti taccio. Funziona così. In un certo senso sono salito di un gradino al di sopra di lui, anche se sono le sue mani a spingerci tutti quanti sopra. Chissà cosa c’è al termine della scalinata, cosa lo fa stare con le orecchie abbassate e mugolante a reggere i nostri mantelli.
Forse i mantelli non sono mantelli ma croci, e lui ci aiuta a trasportarle sul Golgota. Poi, quando i nostri corpi si afflosceranno del tutto, sarà lui a raccogliere i frutti che nasceranno dal nostro sangue.
Per questo paga il suo scotto conducendo una vita di umiliazioni. Quasi gli piaccia essere timorato dal dio che lo attende in fondo alla scala, un dio che non conosce di viso ma la cui parola ha abbastanza peso da farlo ingobbire di rispetto.


Cinque anni fa io e Monique ci facemmo una promessa. Partì da lei il tutto.
-Dato che sei arrogante e rozzo al liceo ti picchieranno di sicuro. Sì, sì, e sarai anche abbastanza stupido da provocarli più volte, e prenderai un sacco di botte…-
Intanto mia madre tagliava a fette la carne e faceva bollire l’olio.
-Guarda che io sono forte per la mia età.-
Fiero orgoglio da tredicenne.
-Certo, certo, ti dico che ti picchieranno perché sarai arrogante. Allora facciamo così, per ogni colpo che ti daranno io ti darò un bacio in pubblico. Perché ti vergognerai di farti baciare da me! E così smetterai di fare l’arrogante!-
-Monique, tesoro, mi prendi le salse nello sgabuzzino?-
Non ha mai sopportato la mia arroganza. Sì, sono arrogante. Ero arrogante. Abbastanza da continuare a fingermi tale anche adesso, mentre i muscoli a malapena sorreggono il corpo.
L’accordo fu reciproco. Da baci divennero ogni genere di cose fastidiose e umilianti, dal mostrare le foto dell’altro piccolo al far credere a una ragazza che io mi ero preso una cotta per lei.
Alla fin fine non furono poi così tante le volte che dovetti subire una di quelle meschine punizioni, e per quanto riguarda Monique… I suoi erano dolori di cuore, e per lei non valevano.
Non vale! Non vale!
Tre giorni fa si è rotto quell’accordo. Sono riuscito ad entrare in casa senza farle sospettare nulla, o quasi.
-Due lavori, e posso mantenere entrambi.-
Era preoccupata, certo che era preoccupata. Suo fratello si assenta da casa per un giorno…
-L’animatore, e poi scarico merci. Certo, non sono lavori sicuri, almeno all’inizio, ma se mi impegno potremo guadagnarci molto.-
Gli orari non sono predeterminati, puzzerò un po’ di fumo e profumo, e altre sostanze innominabili. Ma l’ambiente è fatto così. Non è il tuo fratellino che si sporca le mani, è l’ambiente…
Stranamente sono riuscito a mantenere questa immunità dalla sua preoccupazione per ben tre giorni. Il merito di questo ha forse a che fare con il fatto che ora mi sento una frittata rigirata in padella? Certo, il cuoco è abile, e la frittata verrà bene… Ben rosolata da ambo le parti, dorata al punto giusto, un sorriso soddisfatto e altisonante. Dall’altra parte il lato mancante della maschera greca.
Forse per questo ora non ci credo. È stato tutto troppo semplice. Sono vivo, in piedi, contenuto, ben curato, qui.
Mi immaginavo nel letto della disperazione con i capelli arruffati e gli occhi soffocati dalle occhiaie – Oh me disperato…!
Invece sono qui, dritto come un palo, sull’attenti, solo un po’ goffo nel camminare.
-Non preoccuparti.- dice Giacca Rossa con puntualità. –È solo un punto a tuo favore, la gente paga di più per quelli nuovi.-
Una volta si riconosceva l’esperienza e la saggezza di una persona dal suo sguardo. Ma qui la saggezza sembra essere temuta, quasi ti aprisse gli occhi troppo presto.
In realtà sono pochi a sapere veramente. Consumatore che non legge l’etichetta. Sapere veramente quale assurda regolamentazione può nascondersi dietro a un giro di prostituzione. Lo ammetto, toglie romanticismo e drammaticità, tutto diviene improvvisamente affascinante quanto una dichiarazione dei redditi.
C’è una come me, seduta sul divano. Si chiama Monique, come mia sorella. Ha, come me e mia sorella, i capelli biondi e due laghi negli occhi. Dio mi ha graziato almeno in parte, poiché tutti la chiamano Mon.
Poi c’è Conrad dalle pose plastiche e Anja dai fianchi generosi… Quasi nulla ci differenzia, se non la nostra immagine. In fondo dobbiamo essere tutto e nulla. Siamo specchianti, la nostra immagine si deforma quando il cliente si pone davanti a noi.
Porsi davanti. È uno dei tanti modi di dire che il cliente ha scelto. Serate come queste a questo servono.
Le belle statuine si mettono in mostra, il cliente sceglie, e quelli nuovi, come me, vengono presentati all’opulento pubblico.
E tutto è così semplice. Questa merda è così facile da accettare che mi dico che forse il mondo è una merda, e la mia mente è quindi già in grado di appropriarsi di questo squallore.
Mon è seduta, quasi felice. Come se questo lavoro le calzasse a pennello. Muove un braccio e l’archetto del violino sale, e mentre la sua mano si posa attorno al bicchiere una flebile sviolinata la accompagna.
Così placidamente.


Dopo la prima notte nel letto (e quante connotazioni e sfumature ha assunto questa parola nell’arco di otto ore), ho aperto gli occhi e ho visto una stanza. Una stanza d’albergo, con tanto di targhetta sul comodino, inondata dalla luce del mattino. Una semplice stanza. Un letto matrimoniale, un armadio, una specchiera; una finestra, una porta e quattro pareti.
Poi ho visto me in uno squarcio della specchiera e il mio stomaco si è contratto.
Perché l’occhio vede oltre la materia, mi sono detto, e io ho visto la mia pelle come un’autostrada di lumache, dove gli tesserini viscidi avevano lasciato il loro segno ed erano sparite; strisciate nelle mie narici, nelle mie orecchie, nel mio ano. Scivolate sotto il mio prepuzio e digerite.
Il mio membro, ho visto, e un brivido mi ha lacerato.
Un oggetto così abusato non può concepire un bambino paffuto che sa di latte, a malapena può essere concepito dal corpo che lo ospita.
E sangue, sul mio addome. Sulle mie cosce e sulle mie mani, scuro, rattrappito, secco. Mio sangue, mescolato a pelle altrui, senza il coraggio di toccarmi le gambe per constatare se qualche ferita c’era, se quel sangue era vero o finzione cinematografica dipinta su di me. Un taglio, un’abrasione, un ecco la fonte di questo schifo spiattellato su di me.
Perché, capite, mi sono sentito un aborto reietto cosparso di placenta secca e grumi di utero. La variante erronea di me stesso.
Poi ho sentito il –clic- della porta.
Ora, immaginate un uomo di colore.
Un nigeriano della Nigeria più sbandierata e turistica, una comparsa ai bordi di un depliant turistico fotografato al concludersi di un’anacronistica danza rituale, il volto ancora deformato dagli spasmi della Visione, le labbra assottigliate in un sorriso esasperato, quando il riso viene costretto dal sorriso, troppo ostentatamente falso per esserlo veramente, mostrando tutti i denti di luce pura perfettamente allineati.
Regolari e taglienti sulla mia pelle, scivolati nelle ferite che non trovo.
-Ben svegliato.-
Il sorriso che si arma, il volto che si abbassa e si rialza sinuosamente, il naso sottile di un caucasico, il corpo alto due metri di un aitante velocista ridotto a pelle e ossa. Avrei potuto contargli le costole sul petto. Alto quanto l’ammassarsi dei miei peccati, magro come la mia speranza.
Si è avvicinato mentre io retrocedevo all’esasperazione scoprendo tra le mie natiche tutto il dolore che mi aveva cosparso di sangue, sempre più aggrappato alla sponda del letto, e cadere significava sprofondare.
Si è avvicinato con la larga camicia nera aperta e i pantaloni giallo canarino dal taglio elegante, la linea perfetta da perfetta stiratura.
Godeva. Guardava quel residuo di corpo in preda allo sconcerto e ne godeva come si pregusta una torta appena sfornata. Metterai l’indice nella panna, anche se non si fa, e lo succhierai con lascivia. Finta lascivia. Quell’uomo non percepisce il peccato, è antecedente a bene e male, eppure è riuscito a far ricadere su di me ogni sua colpa.
Sei vittima e ti senti il colpevole. E come smentirlo se un po’ colpevole lo sei veramente?


È de “Il Cardinale”, questa festa.
Il Cardinale si è posto davanti a me, guardandomi da lontano. Sono suo, questa sera, tutto suo, e lo sanno tutti. Riesce a farlo intendere con gesti che per me sono ancora invisibili, ma che mi ricadono addosso come sbarre di una prigione.
È un gioielliere, il Cardinale, e vende addobbi sacri. È un dissacratore elegante.
Mi offre da bere, ha trent’anni, ed è già qui. Ha nel volto l’espressione scaramantica di chi le cose le ha viste e vissute, e ha deciso di farvi un dramma commerciale.
È grigio come cenere, un sentore di devastazione che ha fatto divenire il fulcro del suo fascino, dell’uomo che vive una per una le prove della vita e se le carica sulle rughe che si strizzano attorno agli occhi.
-Sei astemio…? È una buona cosa, ma sei veramente astemio? Credo di poter dire che non ci si salva da una bruttura finché non la si vive e combatte. È un po’ la differenza tra il duellante e l’araldo.-
Sembra avvelenato nella carne, che scoppia in saltuari tic della fronte, e non capisco perché è qui. È giovane per essere clientela, e ha tutte le carte per avere ciò che ora ha pagando.
-Non mi piace bere e non lo faccio.-
E non mi piacerebbe lui in ogni caso, se non previo pagamento. No, senza soldi non mi potrebbe avere, ed ecco che la mia schiena si arcua quanto basta. Perché so cosa ti piace, io so come farti sbavare, alzerai il prezzo senza che io te lo chieda. Mi sei già addosso, aneli con cupidigia a ciò che è tra le mie gambe.
Anche lì sarò giovane e roseo? E chissà se vorrai giocarci o tenertelo dentro…
Puzza.
Di bruciato.
… Che quest’uomo emana con vigore, come se le fiamme dell’inferno gli fossero già sotto ai piedi.
-Sai essere molto aggraziato.-
E poi gradevole, e raffinato, e a modo, educato, amabile.
E più i complimenti ammontano (o forse sono richieste che esaudisco senza rendermene conto), più questa stanza si stringe attorno a me; gli occhi del Cardinale controllano ogni mia contrazione, la luce si offusca e più di ogni altra cosa ora vorrei alzarmi ed andarmene, uscire dalle porte dopo aver salutato altezzosamente tutti quelli che sono in questa stanza. Ossia, io di questo mondo non faccio parte.
Mi alzerò per finire in una stanza ancor più lontana dalla libertà.


Mi ha preso di peso, quel nigeriano sporco d’Occidente nel naso sottile, acuto, dal viso che sfugge verso il basso. Di solito la dinamicità dei tratti negroidi è attenuata dal mento sfuggente, le labbra si protendono ma poi il viso rientra di nuovo. Qui no, il mento è appuntito e sporge.
Mentre sollevava il corpo tremante dal letto, nella mia mente si è riacceso il ricordo delle dita che artigliavano una spalla; mentre il suo cranio lucido si chinava su di me la sensazione passata ora presente di quella palla da biliardo posata sul mio inguine.
Il passato che diventa presente, e più il bagno si faceva vicino più i ricordi divenivano materia solida nel mio stomaco.
Il manichino da vetrina Dolce&Gabbana mi ha trascinato nel bagno, un manichino senza parrucca che prima di me sapeva che avrei vomitato tutto.
Giù per il cesso tutto quello che nella notte mi hai iniettato dentro.
Ero stanco, stancato dalla nozione di dovermi alzare. Ero straziato, ma il bisturi aveva soltanto inciso, l’operazione era soltanto all’inizio e io vi assistevo lucidamente guardando le mie viscere scaricarsi nel lavandino.
Prima ho vomitato il cibo mescolato all’acqua, poi saliva biancastra, poi una sostanza nera e infine me stesso, con lo stomaco rivoltato come un guanto.
Vi sono intimità che non hanno limiti. La compassione è tra queste. E tra queste è il vedere un uomo che non sa più cosa buttare fuori, un corpo che rifiuta sé stesso, scorie che spiattellate sulla ceramica lo osservano con disgusto.
È rimasto in silenzio, pazientando per mezzora senza mutare un solo respiro, mentre la mia gola emetteva versi così immani da non voler essere registrati nella mia memoria. Non puoi sentirli dall’esterno. È il rumore del tuo esofago che si flette, rimbomba accanto ai polmoni, li smuove, e questi spingono il cuore, e tu sei la cassa acustica di te stesso.
Mi ha sorretto quando i muscoli mi hanno abbandonato. Ha sorretto il mio volto e anche un po’ della mia anima, che non defluisse assieme alla materia.


Serge è la matrice di tutto questo, il server che tiene appese queste persone, che altrimenti cadrebbero a testa in giù nel proprio individuale noioso mondo personale. Più stai appeso più ti appendi, smetti di raccogliere le tue feci, lo fa lui per te.
Ti tratta come una signora, come adesso sta facendo con quella graziosa vecchietta impomatata che mi è stata presentata come “La Faivre”. La elogia, le sorride, accondiscende – Va tutto bene, è tutto a posto, tutto pulito. E quanto smania questa plebe arricchita di ingraziarsi l’uomo che gli svuota il cassonetto dopo averli riempiti di stupefacenti e puttane – Tutto a posto, risulterà tutto aristocraticamente pulito.
Lo vedo mentre gesticola, con le dita muove i fili di questa matassa ingarbugliata, li tesse, li misura e li taglia.
Lo imploro, mentre il Cardinale è perso con lo sguardo tra le mie gambe.
Lo imploro, perché il suo male già lo conosco e non voglio genuflettermi ad altri demoni.
Lo imploro con tutto me stesso, e questo paradosso mi divora e mi schiaccia.
No, Cardinale, non mi addolorerò per nessuno al di fuori di lui. È lui che ha in mano la mia salvezza, è da lui e lui soltanto che voglio essere flagellato.
Ma Serge non vede, e non può e non vuole vedere.
Mi offri i tuoi gioielli, Cardinale, tenti di allettarmi, speri al posto mio che la ricchezza mi alletti e sgravi il peso di questo squallore. Non sai quanto mi costi vedere Monique mandare giù un boccone, non sai quanto del lerciume che hai addosso vedrò nel cibo che darò a mia sorella.
Sai solo il presente, tenere ben salde le tue mani su di me, non farmi dubitare nemmeno per un attimo che questa sera non avrò scampo mentre fingiamo che tu mi corteggi e io arrossisco con ritrosia.


La mia prima cliente è entrata nella camera incriminata giovane e sognatrice, con la speranza negli occhi.
È stata comprensiva, dopotutto.
Non pagherei te se fossi in grado di conquistare bei ragazzi.
Lei era la Barbie e io Big Jim. Lei vestita di rosa e io nudo, un principe azzurro senza vesti che di braccia l’ha portata fino a quella camera, e che la ama, la ama, la ama e vuole amarla.
“Perché non mi spogli?”, mi chiedeva il suo sguardo, ricolmo di stupore quasi commovente.
Sì, ti spoglio, scusa, come ho potuto non farlo subito? E l’ho spogliata, come si spoglia una fata. Una spallina cade ed ecco una spalla lentigginosa. Ma ops, non è lentigginosa né grassa, è invece una tornita spalla rosea che profuma di violette e amore.
Non era lei a disgustarmi, ero io che mi disgustavo. Mi era persino simpatica quella modella di Botero con gli occhi intrisi di telenovelas. Probabilmente, se l’avessi conosciuta in libertà, mi sarebbe anche piaciuta, sarei finito nella stessa posizione e con piacere vero nel cuore.
Non così. Così lei era la figurina di un album, attaccata accanto a quella di Edward e staccata quaranta minuti dopo.
Non sono vergine di esperienze sessuali, e non lo ero quella mattina.
Ero stato attratto ed ero finito in cuscini che sanno di shampoo e lenzuola che sanno di segreto, con la leggerezza che ha chi si sente nel giusto, magari un po’ ladruncolo di mele. Così ho vissuto il sesso fino al giorno prima, questo accanirsi di corpi, come un piacere che da soli non si può provare e che quindi si condivide.
I soldi non hanno la stessa potenza prorompente del sangue.
Ma io non ero in grado di distinguere. Potevo solo immaginare di averla già conosciuta, che lei fosse un’amica di liceo da cui passavo un pomeriggio, i cui genitori rientreranno fra un’ora.
Dio, la baciavo e la lingua si ritraeva piccola piccola in fondo alla gola. Strozzati, strozzati.
Il suo corpo aveva per me il sapore dei soldi a lungo maneggiati e non potevo fare a meno di ricordarmi che per lei io ero un vibratore, e quanto male fa quando esce, impossibile pulirlo senza graffiarsi le mani.


La stanza del Cardinale ha il rigore di una chiesa, e lui sembra una scrofa spaparanzata sull’altare. Sta digerendo. Come una mucca si riporta il cibo alla bocca e se lo degusta in solitudine mentre devo poggiare la testa sul suo ventre e sorbirmi tutti i processi digestivi.
È una sottana che si alza, la sua vita.
Ti danza attorno mostrandoti i bordini ingioiellati e di colpo alza la gonna mostrandoti i vermi che brulicano sui suoi testicoli.
Sta a te toglierglieli, perché gli dà fastidio avere le palle gonfie troppo a lungo.
Mi ha regalato una scatolina d’argento, un portatabacco, che era nascosta nelle sue mutande.
E tu trovala.
E cosa me ne faccio?

-Non si può sapere quali vizi contrarrà una persona.-
Magari collezionare gioielli di famiglia piccoli quanto i tuoi. Un simile contenuto in una simile scatoletta sarebbe una buona metafora della tua persona.
-Tu veramente non immagini la vanità dei preti. Non i vescovi, mi riferisco a quei pretucoli che dirigono una chiesa da duecento anime. Si può arrivare a comprendere che un alto prelato debba dare una certa immagine di sé, ma quei miserabili che fanno sermoni su una bibbia in formato economico…-
Parli, ti sfoghi col tuo giovane amante che tutto il quartiere ti invidierà.
Un Edward così modesto, che ha una bellezza eccessiva per la sua modestia (te l’ho sentito dire verme a Serge, ed entrambi eravate accorti nel distillare pillole su di me), veramente come un diamante in mano a un barbone. È proprio ingiusto che dei poveracci come me si trovino in mano tutto questo ben di Dio…
-Perché se ci pensi, cosa ci rimetti tu? Fai un po’ di ginnastica, fai qualche verso e hai finito. Anche uno stupido potrebbe fare il tuo lavoro, e ne ho incontrati tanti…-
Ed è una fortuna che la mia faccia sia sul tuo ventre, perché sì, anche uno stupido saprebbe fare il mio lavoro, e non so neanche dissimulare il disprezzo che sto provando.
-Oh, non sei stupido. Non te lo dico per farti un piacere, non sono quel tipo di persona avrai notato. Sei soltanto all’inizio, e all’inizio bisogna farsi indirizzare, devi imparare due o tre trucchetti… Intanto rimani sotto Serge, è bravo, lo conosco… È riuscito a dare dignità a dei pezzenti stupidi e ignoranti, neanche immagini quanto siano inette certe persone anche nel fare le cose più semplici…-




Vai al capitolo


INDICE CAPITOLI