Una stanza buia. In un letto, in una stanza buia.
Il lato destro del viso incollato al cuscino, quel sudore freddo fastidioso per cui non osi muoverti, o proveresti ancora più freddo.
Così per tutto il corpo, acqua vischiosa che ti ingloba nelle lenzuola fino a che non aderiscono sul tuo corpo come un sudario; morto, un corpo morto che esala i suoi ultimi umori; ma sei ancora vivo, e più cerchi di rigirarti per uscirne più il gelo ti risucchia la volontà.
Uno stato simile alla malattia. Una pallina di metallo che continua a cozzare sulle pareti del mio vuoto cervello quadrato, questa immagine mentale, e la pallina finisce sempre alla base della nuca, ultima vertebra.
Ma non sono malato, e in questo letto mi ci hanno sbattuto. “Sbattuto per essere sbattuto”, penserei se avessi le facoltà di pensare. Invece annaspo nel mio respiro, le narici bruciano per il calore. E la fottuta pallina continua a rimbalzare lì, mentre riprendo coscienza del come e del quando.


Sì, mi ci avevano sbattuto in quel letto.
L’uomo in giacca rossa, con il suo sorriso sempre pronto. Quel sorriso largo e quasi paterno.
-Vuoi?- mi chiede mentre l’automobile procede liscia e silenziosa, e tra le dita ha il collo sottile di un bicchiere.
-No.-
Cerco persino di rispondere con gentilezza, per abitudine.
No, sono un bravo ragazzo in fondo. Non bevo, non fumo. Un ragazzo da campagna pubblicitaria.
“Non si accettano caramelle dagli sconosciuti.”
“Già, mamma, ma io mi sto addentrando nelle loro fauci.”
Giacca Rossa fa spallucce e mi lancia una sigaretta con noncuranza. Non fumo, come ho detto, ma in un momento come questo anche io ho bisogno della mia piccola dose di alienazione. Una sigaretta basta, una semplice sigaretta mi basta, e Giacca Rossa lo sa, e ha drogato anche quella oltre al cocktail.


Sono i postumi della sbornia, questi sudori freddi. Ma non la pallina metallica, che non è di metallo. È di materiale più morbido e vivo, pulsante, un indice che saltella sempre sullo stesso cuscinetto di cartilagine.
Potevo aspettarmi tutto questo… Il letto, la stanza buia, persino la droga (e potrei dire che l’ho presa quasi coscientemente), ma non l’indice.
Vi sono gesti davanti a cui la mente si blocca. Stop, reset. Cambio di memoria. Perché questa non funziona, non ha senso.
Inspiro profondamente, poi espiro. Prendi il mondo, torna al mondo. Butta fuori il sonno. Tutto lo schifo appiccicato addosso rimarrà, ma magari sarai abbastanza in coscienza da toglierlo.
Qui il dito si ferma. Smette di puntellarsi, e si punta con l’unghia nella carne, coniglietto tamburino ha scaricato la batteria.
-Sai perché sei qui?-
Certe domande appaiono scontate.
Certo, so perché sono qui. O forse no. Perché quando gli eventi si svolgono troppo in fretta il cervello mette da parte la memoria prossima, ed immagini fittizie si sovrappongono alla realtà.
Oh, il perché un po’ l’ho dimenticato. Ricordo prima, ricordo ora. Il quando, e il come. Non il perché. Non in questo istante con un indice puntato sul collo.



Sepolta da un palazzo crollato.
Certe spiegazioni andrebbero condite, perlomeno per evitare alla persona che le riceve di fantasticare su tutte le altre cose non dette.
Mia madre, sepolta da un palazzo crollato.
Cinque giorni. Lo avevano detto “gli esperti”, calcolando la quantità di ossigeno, di polveri fini, e di una serie di altre sostanze che ricordavo ma ho rimosso.
Non ci credevo. Due settimane, mi ero detto io. Senza cibo e senza acqua in condizioni ottimali sono due settimane.
Molto più, considerando che era lei. Era forte, e voleva tornare a casa da noi. Doveva.
Non so se mi capite… Se capite il concetto di dovere, e non volere. Non riuscire a considerare nessun’altra possibilità. Io esisto, io devo. Me l’ha insegnato lei. Tramandato, è più giusto dire. Per questo sarebbe sopravvissuta fino all’ultimo.
La morte sotto alle macerie è tra le peggiori. Sai che la persona è condannata ma non sai quanto durerà la sua pena. Non hai speranze, se non quella che la salvino prima. O che muoia, piuttosto. Ma se non la trovano non saprai mai.
Mai trovata, per la cronaca.
Rimanevamo noi.
Noi. Io e mia sorella, Monique.
Ai tempi non ragionai con questo nudo pragmatismo. Non riuscii a credere appieno nella morte di mia madre fino alla notte in cui mi risvegliai in quel letto sconosciuto, con un dito puntato al collo e costretto a ridurre all’osso gli avvenimenti.
Avvenimenti.
Mentre la nostra, mia e di Monique, determinazione si prolungava, avvennero le proteste. Un palazzo crollato è un caso eclatante, se è un caso isolato. Non se è terzogenito.
Problemi con i macchinari, avevano detto altri esperti. Anche se quando avviene un’esplosione è difficile capire se è la scintilla che ha infiammato il gas o se è l’esplosione ad aver rotto le tubature. Anche attentato terroristico, avevano detto, ma fino ad oggi nessuno l’ha reclamato.
Gli unici reclamanti erano per le strade, e reclamavano giustizia. Cos’altro si può urlare in un corteo? Una giustizia sempre differente, ma sempre giustizia. Gente non troppo variegata, vestita dagli stessi abiti all’ingrosso, con l’orgoglio vergognoso di chi sente come fortuna il risveglio al mattino, un orgoglio che solo i parigini sanno esprimere con tanta convinzione.
Fu lì in mezzo che vidi l’uomo in Giacca Rossa, osservatore puro. Non aveva nulla a che fare con quel luogo e con quella gente. Non ancora, posso dire ora. Era un elevato, uno che può permettersi dei costosi occhiali da sole in pieno inverno senza sentirsi ridicolo. Non solo ricco, borioso.
Venne a trovarmi la sera stessa. Trovare me, in privato. Aveva stampato in faccia il sorriso di chi ha il culo protetto. Anch’io sfoggiai quel genere di sorriso, in seguito. Si sedette sulla sedia del nostro cucinino con addosso la stanchezza di chi non si stanca e quindi sente il bisogno di manifestare il più piccolo moto di fatica.
-Tua sorella?- mi chiese per prima cosa, e si rigirava tra le dita una sigaretta che non avevo mai visto, nera con dei puntini bianchi.
Non aveva fretta. Era un italiano che si italianizzava dandosi tempo. Il tempo di ambientarsi, il tempo di non riuscirvi, il tempo di spostare lo sguardo dall’ambiente a me, in più riprese.
-Forse le cose non andranno bene, ma sei ancora giovane e bello. Non sto scherzando. Pensaci. Non sei ancora in miseria, puoi ancora risollevarti con dignità. Pensaci. Vendere il proprio corpo è un lavoro dignitoso come molti altri, e guadagni molto. Pensaci. Sei abbastanza giovane e abbastanza bello da farne una professione. Pensaci.-
Non ci pensai.
Non pensai neanche all’ipotesi di quel lavoro, quell’uomo mi aveva disgustato abbastanza. Poi, ad essere sinceri, neanche concepivo la prostituzione come un vero lavoro. Ve ne erano molti altri, oltre al part-time nel locale in cui lavoravo, e andavano quasi tutti bene. Non quell’uomo. Nella mia mente poco pratica la prima impressione che una persona mi faceva contaminava ineluttabilmente le prospettive che la persona mi offriva. Se Giacca Rossa mi avesse proposto di lavorare in un’agenzia di viaggi avrei reagito allo stesso modo. Non so dire se si trattasse di dignità o orgoglio giovanile, ma credo fosse del tutto comprensibile.

Poi venne l’esiguo funerale di mia madre, poco più di una fossa comune senza corpi da esporre. Vennero i trasparenti veli neri e il non poter piangere una cosa in cui non credi, qualche preghiera letta monocorde che ti ricorda che non hai un Dio a cui credere.
E venne Monique piangente, con in mano una lista di debiti.
-Come faremo?- mi chiese.
Io guardai i 5000 euro che non avevo e non seppi che rispondere, né a lei né a me. Erano solo l’inizio. I debiti che nostro padre ci aveva lasciato erano ancora tutti da scoprire.
Ah, mio padre. Qui vengono le premesse.
Macard Antoine e Trastet Yveline, due nomi fatti per essere letti uno di fianco all’altro. La teatralità è un destino impresso alla nascita, e nulla lo aveva smentito nella sublime coincidenza di quel matrimonio. Produttore e attrice. Macard e Trastet. Una sfiora le consonanti dell’altro.
Mia madre era una donna stupenda, quando era giovane. Un’attrice di stampo teatrale, scuola shakespeariana, un bellezza fulgida ma non accecante, quei toni di colore propri del velluto, morbidi e non eccessivi.
Poi venni io, Edward.
Mia madre era una bella donna, e divenne una bella madre. Trucchi e costumi teatrali nell’armadio, pannolini e pantofole sul letto. Ci amava ancor prima che nascessimo, ancor prima di conoscerci, adottando l’aprioristico pregiudizio che le madri riservano ai propri figli. Non dubitò neanche un secondo prima di abbandonare la sua professione per noi, lasciò che il vento si portasse via il passato al mio primo gemito.
Poi venne Monique, due anni dopo, diciassette anni fa.
Fu in quel periodo che mio padre comprese che il ruolo di padre non faceva per lui. Ci mise due anni e due figli a capirlo.
Di attrici ce ne sono tante, di produttori pochi; due più due; via da Parigi, verso Berlino.
Mia madre tornò ad essere donna. Donna di pulizia, donna dietro alle casse di un grande magazzino, donna in un ufficio; baby-sitter nel tempo libero.
Era una grande donna, veramente una grande donna, una di quelle che non si dimenticano. Le incontri per strada e ti comunicano qualcosa. A lungo, molto a lungo, prima della sua morte mi sono chiesto se sarei mai riuscito a comunicare quel senso assoluto di benessere. Benché vada male, potrà andare bene. Smisi di chiedermelo dopo la prima notte con Serge, Ius Primae Noctis. Perso ogni velo, persa ogni speranza.
In vita mio padre aveva contratto diversi debiti, a quanto lui diceva temporanei. Dovevano lasciare il tempo che trovavano, e non poteva accollarseli lui, ne andava del suo prestigio, gli serviva un prestanome. Chi di più fiducioso se non una moglie?
Mio padre partì, mia madre morì, infine rimase l’eredità di debiti. Cifre esorbitanti. Più di quanto un diciottenne potesse immaginare. Più di quanto un trentenne nelle stesse condizioni possa contenere.
Forse fu un bene la mia età, poiché non mi resi del tutto conto, e agii con una certa calma.
Con una certa calma chiamai Giacca Rossa, e con tutta calma lui mi fissò un appuntamento.
Mi diedi calma anche nello spiegare le cose a Monique. Mi sentivo il padrone di casa, e con il ruolo il diritto di non dare spiegazioni. Con l’affetto (lo ammetto, la compassione) il diritto perlomeno di posticiparle. A dopo. Giacca Rossa aveva detto dopo, con calma, facciamo la sera dopo.



-Sì.- rispondo, e la voce non è la mia. È già sottomessa e umiliata, senza il tempo di adattarsi al nuovo ambiente. Questo imparo di Serge: sa come annullare gli altri, metterli così tanto a disagio e in situazioni di paradosso da renderli inerti. Questo, anche questo odio di Serge. Anche, perché già odio il fatto che sia lì, alle mie spalle, che sia così lascivo e così meccanico. Una bambola programmata alla sensualità. Quest’uomo è fatto di contrasti, e non conoscerò il suo viso finché tutto non sarà finito.
Sì, so. È l’amara consapevolezza, sei lì perché le cose vanno di merda, e per migliorarle dovrai camminare nella stessa merda che lì ti ha spinto.
Così il suo dito comincia a scorrere, il meccanismo è scattato. E Edward rimarrà immobile sulla scia di quella catena di montaggio, attendendo che tutti i suoi pezzi vengano smontati e rimontati.
È un dito asciutto che scivola sul mio sudore, per nulla disgustato, quasi accomodato in quella scia che puzza di acido.
Cinico. Chi sa sondare le realtà più viscerali con la massima placidità. E questo sconcerta, perché mentre tu sarai colto dagli spasmi il burattinaio continuerà a muoverti, per nulla influenzato dalle suppliche che lasci trapelare con i tuoi umori.
Non importa cosa sia, uomo, donna, divinità o simulacro. In esso e di esso importa l’oggetto, non il soggetto. In questo momento non ha importanza che quell’oggetto l’hai cercato tu stesso, ciò che ha importanza è che il tuo datore di lavoro e futura libertà sa muoverti meglio di quanto tu sapresti fare.
Non mi disgusta il suo corpo, no. È un corpo, e quello che ho in mente non può essere paragonato a nulla di reale. È così mostruoso quello che scorre nella mia mente che si plasma sulla realtà e la modifica.
Qual è la particolarità di Serge? Lo chiederò più avanti a qualcuno.
L’ambiguità. Tutto qui? Tutto Serge è qui? Sì, perché è costante. È ambiguità che esce dai pori della sua pelle e entra nei tuoi. Fungo che spora e ti ricopre, ti insemina, e altri micragnosi funghi cominciano a spuntare sul tuo corpo.
Mi disgusta mentre conosco anche il mento appuntito, e quell’alito costante di menta profumata, quei denti perfettamente regolari e taglienti come rasoi; mi disgusta la sua morbosità, ed è questa opprimente morbosità che non mi permette di guardare all’esterno del letto, che racchiude nel sudario il germe di un cadavere che già concima il nuovo terreno.
Come non diffidare di quell’artificiosità di gesti? Pelle così plastica da risultare plasticosa? A cosa aggrapparsi se non al raziocinio estremo dell’artificio quando tutto è carne e sagome?
Poi la sua voce, che sussurra metallicamente parole non troppo elaborate.
-Quanto potresti diventare… Donna per donna, e uomo per uomo; e uomo e donna…-
Parole intrise di piacere, così esprimente che si propaga nella folla attorno; e la folla sono soltanto io, ed è il carisma di un palcoscenico quello che subisco. Senza prove generali, senza vedere quale attore si cela dietro la maschera, il copione ti colpisce e già sa come farti rispondere per la prossima battuta.
Parla, e la voce fa vibrare più dell’intero corpo: un allampanato corpo, gracile e nervoso corpo che zampetta sul letto lasciando fili di ragnatela.
-Uomo, e non oggetto…-
Perché vuole che io gema davanti a quelle mani che stuzzicano, vuole che io dimentichi tutto il disgusto che provo.
Ma è diverso. È diverso vendere il proprio corpo e vendere il proprio piacere. Nel primo caso offri un servizio. Nel secondo caso offri te stesso.
Forse no, se sapessi artefare i gesti e le movenze, muovere le reazioni come lui muove me. Ma senza tutto questo posso solo fingere con me stesso che tutto sia bello, a priori. Sfruttare quel poco che in questo momento posso salvare e porlo dinnanzi a ogni cosa, cancellare tutto per un nulla, fanatismo delirante. E lui delirio, vuole. Non vuole altro, e lo richiede con finte suppliche e finti ordini.
-Alta classe, e l’alta classe vuole il piacere…-
Qui mi fermo. Qui reagisco. Qui mi si offre la possibilità di impormi, anche se dovrei ben sapere che è inutile. Ma è utile all’orgoglio, e a non so quale altra forza che ora reprimo dentro mordendo il mio dolore anziché mordere lui.
Così esce, mi divincolo (attimi di libertà assoluta, questi, quasi stessi combattendo contro il mondo, o contro me stesso), carico ogni energia nel tentativo, vano tentativo di allontanare uno spaventapasseri impagliato di budella dal mio corpo umano e vero.
Vano tentativo, perché l’ambiguità non cessa, e il suo corpo scheletrico stringe come tenaglia i miei polsi.
-E più ti divincoli più vien voglia di stringere…-
Piangi, e il pagliaccio ride. Ridi, e il pagliaccio ride. La cosa più saggia sarebbe fermarsi, e tutto si fermerebbe. Saggia, di una saggezza che non ho.
Ti divincoli e il sudario ti avvolge attorno al cadavere che ti fa compagnia.
Dio, è freddo. È freddo come il metallo e come il metallo entra nelle carni, le dita si infilano tra i tendini e li suonano.
-Ti farà schifo comunque, e io non sono certo paragonabile ai peggiori clienti che avrai… Ricordatelo, il mio è un favore…-
L’arma peggiore è quella flessibile, che si piega quando entra e squarcia ciò a cui la punta non ha mirato.



Monique era ancor più pura di quanto sia ora, e un simile confronto non pare possibile. Eppure era impura, contaminata dal fratello a cui era così morbosamente attaccata, che di lei era ugualmente innamorato.
Avremmo potuto fare diversamente?
Forse sì, ma non vorrei cambiare nulla di ciò che è stato. Ci siamo contagiati a vicenda della stessa malattia, per poi curarci vicendevolmente.
Monique era, ed è, bellissima.
I nostri capelli biondi, i suoi occhi verdi, prato rinfrescante nella nebbia dei miei. La sua chioma era una corona, la cornice barocca e arzigogolata di un quadro che lei si ostinava a schiacciare come si livella la sabbia. Mi perdevo in quei capelli, il mio tic di rigirarmi una sua ciocca tra le dita quando riflettevo, con lei che si lamentava del fastidio che le causavo.
Ma alla fine beveva da me, come io facevo con lei. Si tuffava nei miei scherzi senza timore, sempre sicura che l’avrei sorretta. Sempre. Edward era un baluardo di sicurezza. Non era stupida, era folle. Eravamo folli. Vedeva molto oltre alle mie mura, ai miei giardini decorati, ai miei affreschi colorati; vedeva le debolezze umane di suo fratello, le sentiva come sue e indulgeva.
Indulgeva e tremava, perché un essere mortale muore, di giorno in giorno. Tremava e cadeva di piccole morti, dei miei piccoli insuccessi, e ogni mio fallo acuiva la sua fiducia in me.
Cos’altro è amare? Indifferentemente perché in una persona bene e male sono un’unica cosa indivisibile.
E lei era mia figlia. Nella nostra Corte dei Miracoli la madre muore e il fratello la sostituisce, così come la madre ha sostituito il padre.
Ma non ero mia madre. Mi ero chiesto a lungo quanto avrei ereditato da lei, quanto di quella passione di vita che si dispiega come velluto per accogliere chiunque.
Una madre rotta è un destino rotto. Edward si rompe, Monique si rompe, Edward si rompe. E giù verso l’abisso.



E allora sì, fammi del male.
Perché dovrò soffrire tanto, e voglio scontare tutto ora, perché l’inferno peggiore non è oggi, ma domani. Domani quando la realtà tornerà ad essere la mia realtà. Perché non sei tu Serge quello con cui devo fare i conti. Qui, in questo letto, devo fare i conti con me stesso, con le ferite che mi stai aprendo e che non saprò come richiudere.
Perché Monique le vedrà, una statua di cristallo diviene una ragnatela se viene incrinata, una ragnatela pronta a inghiottire chi la tocca per poi disfarsi su sé stessa.
Fammi tutto il male di cui sei portatore, colmami di tutto il male del mondo così che io domani possa svegliarmi temprato in ogni cosa.
Gli occhi sono già annebbiati, nebbia oleosa che distorce il mio corpo distorto e più li apro più il mondo diviene grigio. Hai avuto il coraggio di iniettare del piacere in tutto questo dolore, hai dissacrato e iniettato. Non ti basta lanciarmi nell’inferno dei malati di Gola, devi anche farmi assaggiare l’ambrosia e ricordarmi dove sono, chi mi contornerà. Caronte che si fa pagare il viaggio e dà in cambio una piccola ampolla, minuscola ampolla, da gustarsi con parsimonia a confronto del fiele che inghiottirò.
Lecchi la mia schiena, e con il sudore viene via ogni maschera. Domani sarò nudo, i miei vestiti saranno in mano tua. Questo mi hai preso, la possibilità di essere qualcosa di diverso rispetto a ciò che vuoi.
Sai che il dolore non lo sento, che mi ricadrà addosso domani, mi incollerà come miele al pavimento e non riuscirò più ad alzarmi. Quanta gente dovrà leccarmi per rendermi libero?
Quali buchi vuoi scavare in me per riempirmi? Quante volte ancora vuoi riesumare il mio cadavere per truccarlo, mostrarlo e seppellirlo?
Ho un limite. L’essere umano ha un limite di sopportazione al dolore. Dopo un po’ non sente più nulla. E tu scavi, intanto, in queste viscere che non hanno neanche la primitiva forza di serrarsi. Tutta consumata nel tentativo di non provare dolore ma piacere, tutta sfumata in gemiti metà falsi e metà veri.
Mani che non possono sporcarsi poiché sono fatte della stessa materia in cui affogano, una maschera tribale perenne. Giorno dopo giorno ti ridipingerai il viso con lo sperma altrui, e mai si vedrà il viso.
Corda di violino tesa attorno ai testicoli con i piedi che sfiorano terra; più il corpo si rilasserà più sarà prigioniero.




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